LETTERA DAL CARCERE

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Allegato . parte Prima
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arteideologia raccolta supplementi
made n.17 Giugno 2019
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Elementi e complementi . (appunti I.3)

DUE OGGETTI OSSERVATI A MEMORIA

“Perdonate i modi bruschi di un vecchio recluso”
(il dottor Morbius nel film Il pianeta proibito)

( fenomenologie )

Benché nell’epoca delle avanguardie artistiche del primo anteguerra fosse generalmente vivo l’attacco all’arte e al suo pubblico – o meglio, alle convenzioni dell’arte e alla sua ricezione istituzionale – non credo affatto che Duchamp sapesse completamente cosa aveva fatto con il readymade, il quale non pone affatto la classica questione di comprendere ciò che l’artista fa con l’opera, ma ciò che l’artista fa non facendola.
Difatti, del proprio lavoro e del readymade Duchamp ne parlerà in certi termini solo a distanza di qualche decennio, come per rielaborare un trauma e rinegoziare un atto mancato – dato che il più famoso tra i readymade, l’orinatoio del 1917 (come anche gli altri, precedenti e successivi) circolò per un lungo periodo solo in forma di immagine fotografica stampata in pubblicazioni e riviste d’avanguardia, noto a mala pena da una ristretta cerchia di artisti e conoscitori dell’arte, e quindi poco incisivo nell’arte corrente dei primi tre o quattro decenni del secolo.
Solo con la ripresa delle neo-avanguardie del secondo dopoguerra i readymade sono stati recuperati e sistemati nella comune famiglia delle opere d’arte, nella quale oggi si mostrano, si celebrano e si valutano con i medesimi parametri dell’arte tradizionale – nonostante che tra il grande pubblico continua a sollevarsi spesso il dubbio circa la loro natura artistica. E sarà pure una reazione istintiva, ma appunto per ciò significativa e non trascurabile di una questione controversa dell’arte moderna. ≠

(artigianato e produzione industriale)

Nel periodo industriale in cui apparve lo scherzo iconico del readymade, Duchamp – forse sotto la spinta tecnicista, taylorista e quindi fordista – collocava decisamente l’oggetto artistico quantomeno fuori dagli usuali paradigmi della produzione artistica, fino allora e tuttora prevalentemente riposanti nel seno del lavoro manifatturiero di tipo artigianale e garantiti dall’evidenza di caratteri pre-industriali, pre-macchinisti….
Tuttavia, per quanto all’epoca gesto mancato (anche perché non sincronizzato con la vulcanica produzione industriale che avrebbe di lì a poco modificati lo scenario ambientale e l’adattamento visivo), fin da subito il readymade duchampiano ha iniziato un lento processo di riorientamento dell’intero sistema della produzione artistica, delle sue teorie e ipotesi storiche e soprattutto, se non essenzialmente, riguardo alle modalità stesse di fare e pensare l’arte e l’estetica, che diviene chiaro e influente solo nel secondo dopoguerra.
[ Su questo ultimo punto, non credo si possa svolgere una trattazione adeguata dell’azione retroattiva del portato delle prime avanguardie storiche nell’arte postmoderna (per come è presentata dalle più affermate teorie dell’avanguardia, ad es. in Bürger o discusso da Foster [1]), senza combinarla con l’analoga necessità della scienza di sottoporre ogni nuova ipotesi teorica a ripetuti cicli di verifiche empiriche – è un cammino obbligato dell’immaginazione, scientifica o artistica, e richiede tempo... ] ≠
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[1] . Peter Burger, Teoria dell’avanguardia, 1974; Hal Foster, Il ritorno del reale, 1996 (ed. Postmedia, Milano 2006).
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( arte .  scienza . separazione )

E’ completamente sbagliato pensare l’azione dell’avanguardia artistica come mera trasgressione. Quella che svolgerà il readymade è invece un attacco alle convenzioni dell’arte [2], che si avvia abbandonando immediatamente ogni manipolazione trasformativa (creativa) della materia in vista del prodotto artistico; separando cioè l’artista dall’opera d’arte, il soggetto dal suo proprio oggetto.
In tutta l’arte del primissimo novecento forse stava accadendo qualcosa di analogo a quanto contemporaneamente accadeva nella ricerca scientifica. La continuità della materia era infranta dalla quantificazione dell’atomo; ad una visione unitaria della natura (e del visibile) se ne aggiungevano altre, contrastanti e inconciliabili, dovute allo studio di fenomeni sottostanti l’osservabilità diretta e la misurazione per mezzo di nuovi strumenti (spettrometro, camera a nebbia, ecc.)… e per tenere tutto insieme la scienza dovette ricorrere e convincersi ad adottare, dopo qualche decennio, il criterio di complementarità… ecc. [un criterio magari discutibilissimo per noi..? ]
Per quanto Picasso e Duchamp possano aver fraintese o manipolate ad hoc alcune nozioni di nuove teorie geometriche o fisiche, non è affatto nostra intenzione spiegare attraverso queste ultime la loro particolare produzione artistica ma di vedere, o cercare di vedere, l’effetto che hanno avuto. ≠
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[2] . Le neoavanguardie del secondo dopoguerra, volgeranno il loro attacco complementare piuttosto alle istituzioni dell’arte.
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( Essendo dati 1. La caduta dell’acqua, 2. Il gas illuminante ) [3]

L’analogia dei fatti che credo di scorgere tra i due ambiti dell’arte e della scienza, è probabilmente dovuta al personale convincimento che l’arte moderna sarebbe “anzitutto” dovuta ad una generica discretizzazione ed esaltazione di singole componenti l’oggetto artistico tradizionale…
essendo dati 1. L’immagine, 2. L’elettricità. [4]
Ad esempio, semplificando: - nella rappresentazione “mimetica”: Luce-Impressionismo, Volume-Cubismo, Movimento-Futurismo… Nella rappresentazione “analitica”: sfondo/figura-Astrattismo, ecc…
D’altra parte ciò corrisponderebbe ad un universo sociale reso frammentato e caotico dal suo modo di produzione stesso… che coinvolge anche la lingua e la scrittura, inducendo rinnovamenti adattativi dei paradigmi delle produzioni materiali e immateriali. – Così la critica letteraria del formalismo russo si sviluppa tra il 1914 e il 1916; il corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, padre della linguistica moderna e della semiotica, appare nel 1916; Impressions d’Afrique e Locus Solus di Raymond Roussel sono rispettivamente del 1910 e 1914; il Finnegans wakes di James Joyce viene scritto dal 1923 al 1939, ecc.; infine, la difficoltà del comunicare degli uomini e delle loro immagini, viene risolta dall’industria delle immagini cinematografiche che, dopo essere state mute per oltre un trentennio, solo nel 1927 iniziano finalmente a parlare …
… essendo dati 1. La fotografia, 2. La fonografia.
E’ probabile che nel procedere in questi appunti io tradisca che a guidarli possa esservi (oltre al tema della separazione) una sorta di visione generale dell’arte di tipo filogenetico, basata sulle modificazioni materiali delle morfologie delle immagini e dei suoi prodotti - sempre meglio di una storia dell’arte che si svolga attraverso contributi personali di geniali artisti. Alcuni particolari studi sull’arte svolti dalla seconda metà dell’ottocento possono già considerarsi come un’avviata raccolta di dati e osservazioni che hanno bisogno di una sistemazione unitaria e più organica, deprivata da giudizi prêt-à-portere e ambiguità, così da poter essere trascrivibili in algoritmi più complessi di connessioni e ricchi di dati resi stabili da opportuni “collimatori” ricavati da tutti gli altri ambiti di ricerca – che da parte loro già manifestano una simile esigenza di unificazione della conoscenza, che noi diamo possibile solamente…
essendo dati 1. il rovesciamento della prassi, 2. il comunismo
[ Sto cercando di farmi largo nella questione procedendo con rapide intuizioni, e ho preferito fissare sommariamente alcuni aspetti dello sfondo personale dal quale “suppongo” di averle derivate per non mettere proprio nulla al riparo da ogni eventuale critica, anche demolitrice. ] ≠ > leggi N.d.R. 1
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[3] . Étant donnés: 1. La chute d'eau, 2. Le gaz d'éclairage è un'installazione ambientale (242.6 x 177.8 x 124.5 cm) di Marcel Duchamp, costruita con materiali vari tra il 1946 e il 1966, e conservata a Filadelfia presso il Philadelphia Museum of Art. L'artista vi lavorò per circa venti anni fino a poco prima della sua morte senza parlarne mai a nessuno, in un periodo in cui anche i suoi amici più stretti erano convinti che egli avesse abbandonato l'arte; solo sua moglie Teeny era a conoscenza di tale realizzazione perché occupava un'intera stanza all'interno dello studio dell'artista. > Vedi immagine.
[4] . Le equazioni di Maxwell avevano dimostrato (1864) che l'elettricità, il magnetismo e la luce sono manifestazioni del medesimo fenomeno: il campo elettromagnetico. “La teoria di Maxwell è il luogo in cui sia l'ottica che l'elettrodinamica, mediante la loro relativizzazione, devono essere reinterpretate insieme.” (Gerald Holton, L’immaginazione scientifica, Einaudi 1983, pag. 210).
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( la ruota e il toro )

Ci può essere qualcosa di più banale ed ovvio di un qualsiasi prodotto industriale a buon mercato? Tuttavia…
Picasso nel 1942 ci mostra una sella di bicicletta coronata dal suo manubrio, e però ci dice “ecco una testa di toro” [5], portandoci fuori dalla realtà degli oggetti immediatamente percepiti. Duchamp nel 1913 aveva avvitato una ruota di bicicletta su uno sgabello, e sembra dirci appena “ecco un ruota di bicicletta montata su uno sgabello”. 
Se la picassiana testa di toro sembra sentenziare che “l’arte è il prodotto del lavoro dell’uomo con qualcosa in più (come credo abbia detto Heidegger per l’opera d’arte), la ruota duchampiana sembra non voler aggiungere altro e consentire a noi stessi di formulare la sentenza: “l’arte è il prodotto del lavoro dell’uomo senz’altro (sans phrases)”.  E se l’in più del primo richiama ai caratteri tradizionali dell’arte del passato (la figurazione organica, la mimesi, la fantasia, la costruzione personale nel concepirla, l’opera unica originale ecc., insomma quel qualcosa che fa oscillare il prodotto nella indeterminatezza, tra verità e apparenza), il silenzio del secondo tiene l’oggetto fermo nel presente e a portata di mano, e così mobilita (volente o nolente) categorie estranee e forse contrarie alla tradizione artistica, e che però oramai permeano la vita immediata e l’occhio (di precisione) dei contemporanei con la produzione industriale di serie e la sua estetica diffusa dall’inflazione di immagini - incluse quelle che non sono arte: immagini scientifiche, tecniche, diagrammatiche, modellizzanti, misurazionali, matematiche… ≠
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[5] . Pablo Picasso in una conversazione trascritta da André Warnod nel 1945: “ Avevo notato in un angolo un manubrio e una sella di bicicletta disposti in modo tale che assomigliavano a una testa di toro. Ho messo insieme questi due oggetti in un certo modo: ho fatto di quel manubrio e di quella sella una testa di toro che tutti hanno riconosciuto come tale. La metamorfosi si era compiuta e mi auguro che un'altra metamorfosi si faccia in senso contrario. Supponete che la mia testa di toro sia gettata tra i rottami. Un giorno forse un ragazzo si dirà: 'Ecco qualcosa che potrebbe servire molto bene come manubrio per la mia bicicletta... Cosi una doppia metamorfosi si sarà compiuta....". (A. Warnod, In pittura tutto è segno, in Pablo Picasso, Scritti, SE, p. 56)
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( lavoro e ozio )

Mentre a un dipinto cubista di Picasso (ed estensivamente ad ogni immagine figurativa) possiamo sempre applicare la didascalia magrittiana: Ceci n’est pas … un guitare, ad esempio, non possiamo fare altrettanto con il readymade, ma volgerla in positivo: c’est un urinoir - come in un catalogo di articoli sanitari in cui si precisa il nome industriale e le dimensioni di un orinatoio a becco da parete in ceramica bianca.
Che dopo ciò vi sia ben poco da fare - nel senso di manufatturare personalmente per costruire originali unici -  è del tutto ovvio, e conseguentemente lo è teorizzare l’astensione dal lavoro (artistico) e l’ozio di Duchamp, da contrapporsi, ad esempio, all’alacrità di Picasso. L’uno si libera dal lavoro affidandolo alla macchina, l’altro si fa lui stesso, generosamente, compulsiva macchina di lavoro …
[ La società capitalistica è dissipatrice in tutto; la nuova dovrebbe continuare ad esserlo nelle arti? ]


( la banalità arricchita )

Se tuttavia a volte il readymade viene accompagnato da una didascalia che non corrisponde e semplicemente conferma l’oggetto (così come nell’assemblaggio di Picasso la titolazione “testa di toro” per un sellino e un manubrio), si tratta di quel minimo prescritto nelle ricette dell’arte; quel quanto che basta per far scivolare l’esperienza immediata dell’oggetto banale (risaputo e comune) nell’orbita più stabile dell’opera d’arte tradizionale, magari solo grazie ad una firma in calce. E’ come se, per distrarci un poco durante la minzione in un bagno pubblico, indugiassimo con l’immaginazione sulla scritta della ditta che ha fabbricato l’orinatoio in porcellana (R. Mutt 1917) o graffita sul muro (Fontana-pubblica). Ma con Duchamp sempre presso un orinatoio si rimane, mentre con Picasso si va in un altrove campestre… [Simili manipolazioni didascaliche oggi si svolgono comunemente sul web con il giuochino sui “memi”… (unità già fatte dal significato compatto e largamente risaputo)] ≠

( banalità e verità )
Molti pittori hanno paura della tela vuota, ma la tela vuota a sua volta ha paura di un pittore appassionato che sia anche audace -- che una volta per tutte abbia rotto l’incantesimo del non sai fare. (Vincent van Gogh a Theo, Nuenen 2 ottobre 1884 n. 464-378.79.)
Magritte ha dipinto in modo banale, ossia come un’illustrazione da sillabario, una banale pipa, ma sotto vi scrive “ceci n’est pas un pipe”. Il paradosso è solo apparente; intende evidenziare e rimuovere un equivoco di nominazione contratto con i primi apprendimenti; la scritta deluciderebbe il fatto che ciò che il pubblico sta vedendo nel quadro non è affatto una pipa reale bensì la sua immagine dipinta in un quadro; e dunque ciò che in realtà in esso si rappresenta con la pittura è la verità in pittura: l’oggetto rappresentato non è l’oggetto reale. Il quadro sancisce la schizi che separa il segno dal referente, l’arte dalla realtà, l’apparenza dalla verità, l’ipotesi dalle leggi… E’ un “dire la verità in pittura” che era stato il programma artistico di Cézanne… forse poi del cubismo.
Come Cézanne non prometteva di “dire” quanto di “dare” la verità (in pittura e con la pittura) neppure van Gogh cercava il suono, bensì la suola della verità (che non si dice ma si dà, proprio come una concretissima pedata). Così Duchamp, che programmaticamente separa l’oggetto dal soggetto, non vuole dirci con la pittura la verità in pittura, ma darci il criterio di verità della pittura e dell’arte.
E’ noto che una teoria scientifica non può costruirsi su fatti empirici chiaramente visibili, ma non deve contraddirli.
Duchamp attinge a oggetti tanto comuni da essere accettati e compresi da tutti. E il readymade è l’oggetto che, sottoposto al campo elettromagnetico dell’arte, non contraddice al suo dato empirico; e che intanto pone “un mondo reale” separato dalle apparenze del soggetto che pensa e osserva; è quasi soltanto un assioma che si sostanzia anche in arte per dare inizio ad un’attività artistica di revisione epistemologica, orientata a “sottomettere” [6] il mondo della semplice esperienza visiva e rappresentativa al cerebrale e al pensiero. Detto così può suonare strano, ma credo in sintonia con le posizioni di Planck e Einstein, per i quali lo scopo fondamentale della scienza (dell’arte) è “la liberazione completa della rappresentazione fisica dall’individualità degli intelletti separati”.
Sembra essersi stabilita così una concatenazione tra i fatti dell’arte e della scienza che delinea una visione cosmologica della quale ci siamo prefissi di sondare, congiuntamente, un oggetto lontano e separato dalle sensazioni (come il readymade) ed un analogo oggetto vicino ed esposto alle sensazioni (come la testa di toro di Picasso) per vedere che genere di informazioni emettono verso un determinato soggetto osservatore… quale, ad esempio: un comunista generico….≠
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[6] . Una sottomissione della pittura alle sensazioni cerebrali non equivale ad una sua spiritualizzazione, ed è precisamente il contrario.
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( oggetto alla mano )

Il programma duchampiano di sottomettere la pittura alla mente o il “vedere” all’attività mentale non assume nessun carattere idealistico se lo collochiamo in un alveo di studi circa fenomeni sinestetici  connessi alla visione dell’immagine - per come inaugurato dai “valori tattili” di Berenson già nel 1848 -  fino ad arrivare alla recente scoperta dei neuroni specchio. E qui non possiamo fare a meno di rileggere una pagina: 
La risposta visiva dei neuroni canonici mappa, “rappresenta” gli oggetti in termini relazionali. L’osservazione di un oggetto, pur in un contesto che non prevede con esso alcun attiva interazione, determina l’attivazione del programma motorio che impiegheremmo se volessimo interagire con l’oggetto. Vedere l’oggetto significa simulare automaticamente cosa faremmo con quell’oggetto; significa simulare un’azione potenziale. In altre parole, gli oggetti non sono unicamente identificati, differenziati e categorizzati in virtù della propria mera “apparenza” fisica, bensì anche in relazione agli effetti dell’interazione con un agente potenziale. [7]
Con il readymade non si offre più all’osservazione solo l’immagine ma l’oggetto stesso, balisticamente proiettato d’un colpo nell’orbita gravitazionale dell’arte. Oggetto da mappare all’interno di un altrettanto concreto sistema che viene con ciò stesso oggettivato separatamente dall’arte come parrticolare prodotto dal suo generale processo di produzione. ≠
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[7] . Vittorio Gallese e Michele Guerra, Lo schermo empatico, Raffaello Cortina editore, Milano 2015, p. 16.
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( Narciso )

La distanza che separa Narciso dall’immagine è resa incolmabile dall’interdizione ad afferrarla.
La teologia conta su questo divieto della natura per reificare l’insipienza per l’immagine e presentarla come manifestazione del sacro. Narciso però non è narcisista; non è infatuato di sé ma della propria immagine riflessa; e si perde solo dopo aver abbandonato il corpo per inseguire l’eco lontano della sua immagine. Invece, rimanere sulle sponde dello specchio infido e, a distanza, scrutare la superficie per non lasciarsi prendere degli infiniti rispecchiamenti del sé e del mondo, che inghiottono nello sguardo i corpi increspati per disperderli nel divagare delle immagini…
Per prima viene l’immagine iconica ad indebolire l’interdizione che comanda la distanza malefica dell’immagine dal corpo, per dopo venir revocata grazie alla fotografia – la quale socializza non solo l’immagine ma anche i mezzi per produrla e riprodurla a piacimento. Ora l’immagine è tattile e manipolabile tanto quanto l’oggetto preso a motivo e a cui si riferisce; e nel semplice guardare entrambi separatamente allora vi si possono “vedere” rispecchiati, e dunque “conoscere” e sentire con il corpo, anche i reali processi che materialmente hanno prodotto sia l’immagine che il suo modello fisico, senza più cadere nell’immagine o nell’oggetto.
Con la presa dell’oggetto reale da parte di Duchamp vengono tratte fuori e rese sensibili delle componenti che costituiscono quel nebuloso universo delle immagini che è l’arte. Ora abbiamo il corpo reale e la sua immagine con l’insieme dei loro reciproci rapporti artistici; abbiamo l’artista e il suo prodotto con l’insieme dei loro reciproci rapporti sociali, ... e con ciò Narciso viene meno.
[ Il readymade come opera d’arte si percepisce solo sulle frequenze intermittenti il corpo reale e la sua immagine, non su quelle del sublime e del sacro. ]

( qualcosa in più di non più sublime )

L’oggetto artistico, inteso come un prodotto con qualcosa in più, si allontana dalla nostra portata per raggiungere un punto artistico-estetico x. Lo stesso oggetto, prodotto con qualcosa in meno, torna o resta alla nostra portata di mano e stimola una interazione… 
Ho sentito di un ragazzo autistico che riceve in regalo una bella bicicletta di cui non capiva che farne; allora l’ha capovolta e con una mano si divertiva a far girare le ruote. Avrebbe fatto lo stesso con il readymade di Duchamp, senza neppure la fatica di rovesciare una bicicletta. E tanto vale per tutti noi alla presenza di una ruota di bicicletta, di un orinatoio o di un pettine; dato che l’osservazione di un oggetto manipolabile evocherebbe un’attivazione motoria nel nostro cervello anche in assenza di qualsiasi intenzione o azione di afferramento diretto, presentandosi cioè con l’oggetto anche il suo valore d’uso... Se non fosse poi che quest’oggetto posto su un piedistallo o in una teca di contemplazione, viene rispedito lontano da una spinta esclusiva e alienato così nell’empireo enigmatico dell’arte al punto x nella scala di valori fuori portata. Ma è appunto perché allontanato nella sfera dell’arte se la banalità del readymade è un allerta che richiama l’attenzione al sistema sociale, che lo ha prodotto in quanto merce ma lo riconosce e autorizza in quanto opera d’arte. E’ dunque anche questo sistema e modo di produzione che nega continuamente sé stesso a venir tratto alla luce come oggetto d’analisi della produzione artistica. 
Nel Museo il sellino e il manubrio di Picasso sono allontanati e resistenti ad ogni manipolazione; lo sgabello e la ruota capovolta di Duchamp pendolano sempre tra il lontano e il vicino, tra l’insorgere dello stimolo tattile e l’interdizione a soddisfarlo. Intanto però l’oscillazione del readymade ha sondato per noi l’intervallo che distanzia oggi l’opera d’arte da un oggetto ovvio e banale come una merce qualsiasi, e isolato il sistema che li regola, ossia il valore di scambio e il suo specifico modo di produzione assieme alla sua specifica ideologia sovrastrutturale…
≠ > leggi N.d.R. 2

( verità e seduzione )

La sella di cuoio di una bicicletta coronata da un manubrio di ferro e conservata nel Museo Picasso di Parigi col titolo di testa di toro, non intende dirci la banale verità circa il suo vero essere (dato che è fin troppo evidente di cosa è composto) e allora ci alletta con una suggestione mnemonica, per altro non troppo originale, suggerendoci di vedervi una testa di toro - tuttavia, vedere in un sellino e un manubrio di bicicletta una testa di toro, non fa di quest’immagine una testa di toro più di quanto un pilastro di ghisa fuso in forma di colonna gotica nell’epoca vittoriana non fa di esso una colonna gotica… Comunque qualcosa è venuto ad appagarci, fosse pure per ultimo il gratificante pensiero di aver capito un po’ dell’arte moderna.
Magari sarà pure così, e qualcosa in più la fa effettivamente capire.
Mi chiedo però se era possibile ricavare incrementi di informazione meno scontate se un semplice effetto di rassomiglianza con un toro lo si sarebbe accompagnato con altre didascalie – ad esempio: “sellino di bicicletta e manubrio”, oppure “questo non è un sellino di bicicletta e un manubrio”, o anche “questa non è una testa di toro”, “un toro in bicicletta” ecc. Credo proprio che avremmo registrato suggestioni di uno spettro informativo più ampio di quelle ottenute dall’univoca indicazione a ravvisare nell’accostamento dei due oggetti industriali le fattezze di una testa di toro [effetto evocativo di cui ognuno ha fatto esperienza; descritto da Leonardo osservando delle casuali macchie sui muri, o da Mantegna osservando le nuvole: una sorta di coazione ad antropomorfizzare o a dar forme preconosciute all’indefinito – che non è propriamente un vedere ma uno scorgere per la coda, uno sbircio, un intravedere fantasmatico tra le simmetrie (e nel caso anche molto aiutato)].


( unicità e serialità . l’autentico e il falso )

Una bicicletta tra quelle prodotte in milioni di esemplari viene smontata, sia da Picasso che da Duchamp, nelle singole parti meccaniche che compongono questa macchina prodotta da macchine.
Il primo sceglie solo quelle parti che, opportunamente accostate, possono suggerire la fantasia visiva della testa di quel preciso animale evocato dalla sua fertile immaginazione. L’insieme così volutamente ricombinato è il risultato reso tangibile di un suo proprio processo psichico che è stato capace di trascendere la realtà immediata e banale delle cose per trasfigurarle in un unico diverso oggetto (statico) evocativo di forza vitale: il toro, in parola ma non di fatto. Prodigio singolare e portento tutto personale.
Il secondo sceglie un solo oggetto (dinamico): una ruota di bicicletta con la sua forcella avvitata su una base costituita da uno sgabello (che come l’intera bicicletta è prodotto in milioni di esemplari ed equivale ad un sellino) per rassomigliare a sé stessi, in parola e nei fatti; essere, cioè, nulla di più che ogni altra ruota di bicicletta messa a riposo su ogni altro sgabello (un qualsiasi mercante troverebbe da sé analoga soluzione espositiva per mostrare che la bottega vende ruote di bicicletta isolatamente dal telaio portante) – [dall’arte come rappresentazione all’arte come presentazione e indice? ].
Da una parte l’opera unica scaturita dalla scintilla di una connessione metaforica dovuta unicamente al suo autore, dall’altra la combinazione semplice di oggetti d’uso comune; da una parte l’oggetto unificato in un sembiante, dall’altra l’oggetto privo di un sembiante cui tendere; da una parte l’opera d’arte autentica e autenticata, dall’altra qualcosa che ha tutta l’aria di non esserlo… altrimenti ogni altra qualsiasi cosa, priva del carattere di unicità distintivo dell’opera d’arte, è suscettibile di confondersi con l’arte e di falsificare troppo facilmente il proprio valore. [ Il ricorso notarile per certificare una limitazione delle repliche dei readymade non smentisce affatto la loro vocazione inflativa, anzi la conferma. La borghesia non vuole che tutti i prodotti possano ammirarsi come prodotti emeriti del suo lusso, proprio così come non vuole che tutti i lavoratori diventassero oziosi come i borghesi [8] ]. ≠
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[8] . Bertrand Russel 1935, Elogio dell’ozio, ed. Tea, Milano 1990: “L'ozio è essenziale per la civiltà e nei tempi antichi l'ozio di pochi poteva essere garantito soltanto dalle fatiche di molti. Tali fatiche avevano però un valore non perché il lavoro sia un bene, ma al contrario perché l'ozio è un bene. La tecnica moderna ci consente di distribuire il tempo destinato all'ozio in modo equo, senza danno per la civiltà.” – Vedi anche Paul Lafargue in nømade 2007.
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( tutto qui?  )

E’ ricorrente tra noi richiamare nozioni quali la quantità che modifica la qualità, o l’insieme che non è la somma delle parti, ecc.. Se ora venissi tentato di applicare simili nozioni all’esperienza fatta da un osservatore le due opere d’arte in esame, sarei portato a svolgere narrazioni di questo tipo.
…Per avere esperienza diretta con l’aura sublime del “toro” di Picasso, devo recarmi in un unico posto del mondo e presso l’unico muro su cui è appesa quest’unica opera: 5 rue de Thorigny a Parigi. Spostamento, d’altra parte, a cui ognuno è costretto, se vuole avvicinare le opere d’arte di sempre, raccolte in musei o sistemati in altri luoghi di culto. Ma capita a volte che anche le opere prendono a viaggiare come le merci; proprio così come è accaduto per quest’opera di Picasso, prestata con altre sculture al Museo d’Arte Moderna di New York per allestire una grande mostra sul Picasso scultore.
Fatto dunque il pellegrinaggio fino al numero 11 di West 53 Street di New York per godermi Picasso e il suo “toro”, ecco che in una stanza dello stesso museo trovo esposta anche una replica “autorizzata” della ruota di bicicletta di Duchamp. Ma da quest’ultima opera non emana quell’alone di sublime che mi aveva deliziato davanti al “toro” picassiano, sento invece un’aria vizza di banale cui far spallucce.
La mia viva esperienza con il readymade sarebbe risultata piuttosto deludente se, nel tornare in albergo, non avessi notato nelle strade diverse biciclette posteggiate, e tra una ruota e l’altra ecco che nella mia mente tornava ostinatamente a far capolino l’opera duchampiana, appena vista e svalutata per l’ovvietà dell’oggetto. Lì al museo il mio apparato ottico aveva forse subìto una revisione?
Difatti solo ora per la prima volta vedevo tutte quelle ruote di bicicletta così nitidamente; isolate da ogni funzione pratica e da ogni altra cosa, a centinaia stavano davanti a me nella loro chiusa concretezza raggiante... Adesso era la ruota stessa che pareva guardarmi e riguardarmi da ogni dove… Iniziavo a chiedermi se la quantità di tanti altri simili oggetti banali sparsi nel mondo, proprio in quanto sfornati a milioni dall’industria non si erano pertanto modificati anche nelle loro qualità fenomeniche…
Forse – mi dicevo per scuotermi dal rimpianto per le opere sublimi del passato – per quanto rivestite dei loro sacri veli certe reliquie non richiedono più il pellegrinaggio sui luoghi consacrati dell’arte… Non ero forse più nella condizione di Narciso, che quando si allontana dalla pozza d’acqua l’immagine sparisce? Se ciò che ricevo dalla viva visione di un readymade, posso ottenerlo girando liberamente nella città oppure recandomi in parecchi luoghi che ne hanno copia… potrei pure rimanermene comodo in casa a sfogliare un catalogo o una rivista d’arte… Mi troverei ovunque e in ogni momento immerso e circondato di oggetti d’uso comune che hanno la stessa capacità delle opere d’arte, la loro medesima potenzialità estetica… E le macchine che li hanno prodotti avrebbero dunque anche loro una capacità artistica?... una competenza estetica?...
Tutto qui?
Fosse pure tutto qui, non ditemi che vi sembra poco se l’arte non ha visto nella miseria di un banale oggetto prodotto a milioni dall’industria moderna soltanto la sua miseria… ≠

( la banalità e la merce )

Una semplice ruota di bicicletta, un orinatoio, uno scolabottiglie o un attaccapanni prodotti in milioni di esemplari non devono essere poi delle cose troppo ovvie se fanno ballare le teste come hanno fatto ballare i tavolini cinesi per Marx che, così come nella miseria del proletariato non vede solo la miseria, neppure vede nella banalità di una merce niente altro che la sua immediata banalità.
“A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci telogici”, ci dice Marx parlando della merce - il cui carattere di feticcio è affine al carattere sacro e sublime proprio di gran parte dell’arte del passato. Dopo di che non è poi così bizzarro e privo di significato trovare raccolte assieme opere d’arte sacra e merci nello stesso luogo altrimenti devozionale: il Museo. [Accolta di merci sacre e di merci senz’altro. Qui, pale d’altare o ruote di bicicletta hanno subìto entrambe un identico trattamento “estetico”: defunzionalizate dal loro originario uso e rifunzionalizzate come opere d’arte, tutte, dunque, falsificate a priori. Che la modificazione sia avvenuta per tramite un organo pubblico e per il bene pubblico, o per tramite di un organismo privato e per un bene privato, non cambia la sostanza: sempre di merci si tratta, per quanto anche diversamente venerabili o praticamente invendibili (sempre però che non si abbia invece il consenso di chi le ha in proprietà: lo Stato o il Cittadino, ovvero: le forme incarnate della Proprietà privata e sufficiente moneta per operare lo scambio)].
Dato poi che un readymade viene programmaticamente scelto a caso in un giorno qualsiasi tra tanti altri oggetti privi di ogni significato particolare e giudizio personale - come puntando alla cieca su un numero secco al tavolo della roulette -,  ogni readymade non rappresenta neppure più sé stesso come merce particolare, ma la sua generale astrazione: la merce in sé.
E così come “mai la merce sfamerà l’uomo” neppure l’arte potrà soddisfarlo.
[ L’uso della categoria economica di merce negli studi sull’arte moderna è da tempo un luogo comune; ma sembra che non se ne trovi un’altra di così calzante alla sua natura come questo luogo comune, reso però intricato dal carattere di feticcio che la accompagna (nei termini propri a quelli che per primo Marx ha indicati nel primo capitolo del Capitale), e che forse è diventata una ovvietà nel pensiero estetico moderno solo dopo che il readymade (e altre opere dell’avanguardia altrettanto “facili” da realizzare) gli ha offerto l’esca e concesso il tempo per masticare e ingoiare questa complessa ovvietà. - In un certo senso possiamo registrare qui un’altra capitolazione del pensiero borghese e dell’arte davanti al comunismo. ]
Se il readymade è lì per dirci anche tutto questo, e non per raccontarci storie sacre o evocarne di bucoliche, difficilmente riuscirà a sedurci… se non ci lasciamo abbagliare unicamente dall’inaspettata singolarità dell’oggetto e dalle sue movenze.


( la Colonna Vendôme )

Il lascito di Klee all’arte moderna è stato che non si tratta di rendere il visibile ma di rendere visibile.
Poteva forse l’artista e l’arte evitare di fare i conti con il passaggio epocale da operaio parziale a operaio totale, con il passaggio della produzione da manuale a meccanica e  automatica, e ancora con il sistema delle macchine e oggi dei robot, dell’informatica e dell’intelligenza artificiale?
Poteva forse il Capitale raggiunto il suo Golgota dissolversi senza lasciare di sé un’immagine capace di riassumere simbolicamente il modo di produzione con il quale ha trasformato ogni cosa del mondo in merce? Tutto ciò ha dovuto trovare i modi “artistici” per manifestarsi; si tratterebbe allora di capire dove emerge in forma esemplare e vengono allo scoperto i caratteri propri dell’arte nell’epoca del capitale. Non sarà forse con il readymade duchampiano; ma con il “toro” picassiano non ci aiutiamo certo a focalizzare quest’ordine di problemi, a noi più prossimi e interessanti.
Se qualcosa dovesse, a buon diritto dell’epoca, sostituire la bronzea statua imperiale posta sulla cima della ripristinata colonna Vendôme, non troverei di meglio che prepararla al suo prossimo abbattimento collocandovi in gloria la raggiunta semplificazione della base logica dell’arte moderna, ossia: la tuttora insuperata cruda banalità di una ruota di bicicletta montata sopra un ridicolo sgabello di legno… ≠
> leggi N.d.R. 3

( il piacere euclideo )

Con tutto ciò, corretti o discutibili i ragionamenti fin qui svolti, il fatto che i readymade non procurano alcun godimento estetico a chi li guarda non è del tutto insignificante ai fini di un bilancio dell’esperienza personale fatta nel confronto con una scultura di Donatello, un quadro di van Gogh o un qualsiasi collage scolastico dei nostri figli.
Per tale questione ci sarebbe troppa materia su cui riflettere, pertanto mi limito a prendere nota che:
1) data la particolare natura “anticonvenzionale” del readymade non è congruente confrontare tra loro un oggetto con la sua negazione;
2) il fatto che il readymade non ci emoziona e “non ci dice nulla”, o ben poco, è perché non emette segnali nella frequenza di quelle che ci attendiamo di sentire (convenzionalmentei), e confermerebbe che si colloca proprio fuori portata o al limite (se non contro) dell’arte tradizionalmente intesa;
3) come ci sono spazi a n dimensioni (nel cubismo, ad esempio) è possibile ci siano sensazioni estetiche per ognuna o per diversi insiemi costituiti da queste n dimensioni possibili: si tratta di capire in quale di queste dimensioni si colloca il readymade con il suo proprio eventuale piacere (non più retinico-visuale, direbbe il programma artistico di Duchamp);4) probabilmente piaceri e godimenti hanno una loro storia ancora non scritta (solo appuntata qua e là nelle forme artistiche di sempre); ma la sensazione di gioia descritta da scienziati quando d’improvviso gli appare come “bella” un’ipotesi, una teoria, una procedura di calcolo ecc., ci indica l’esistenza di fonti, modi e tipi di piacere “estetico” che attengono a processi mentali diversi da quelli esplorati finora dall’arte e dall’estetica, forse tuttora – e non si sa per quanto ancora – prevalentemente “euclidee”. ≠

( due universi in cui guardare )

L’oggetto picassiano, fosse pure un piatto di portata in maiolica, è senza dubbio un oggetto artistico; l’immediatezza della sua riconoscibilità in quanto tale è data dalla presenza di certi caratteri che le esperienze passate e il comune intendere associano da sempre all’arte e all’artisticità. Se in ciò la tradizione non è infranta, viene tuttavia sottoposta da Picasso a delle estreme sollecitazioni nella sua tenuta visiva.
Lasciando da parte la citata (e tardiva) testa di toro, ricordo di aver visto a Parigi qualche collages di Picasso (non ricordo bene, ma credo dei tardi anni ‘30) che non aveva e non intendeva avere nulla di mimetico. Sono forse questo tipo di opere quelle più prossime al readymade (come invece senz’altro lo è il quadrato suprematista di Malevic o anche i dripping di Ernst e Pollock). Ma Picasso in genere, qualunque cosa facesse la volgeva quasi istintivamente verso la raffigurazione della realtà circostante, rendendola in figura, o anche verso la realtà delle opere d’arte del passato, ri-figurandole a modo suo.
C’è una foto, proprio del 1913, in cui Picasso ha collocato contro una tela una chitarra reale; ma lui non ce la fa proprio a limitarsi a questo (come magari avrebbe fatto Duchamp) e subito fa imbracciare lo strumento alla figura disegnata di suonatore… E’ forse la testimonianza di un readymade mancato piuttosto che la preparazione di un quadro cubista? Certamente nò per l’universo picassiano, sì per l’universo duchampiano (quantistico?).[ Non fraintendetemi. Rafforzo volutamente i contrasti tra Picasso e Duchamp solo per dar maggior evidenza ad alcuni aspetti ritenuti più interessanti per noi. In laboratori diversamente orientati e con diversa strumentazione, sul corpo dell’arte tutti e due hanno svolto separatamente il lavoro parallelo richiesto dalle circostanze dell’epoca, fornendo ognuno determinati risultati tuttora sostanzialmente insuperati, e che forse solo applicando un principio (di complementarità?) potrebbero vedersi convergere, intrecciarsi e fondersi con piena evidenza in un unico cammino. ]. ≠

( separazione e indifferenza )

Perché forse Duchamp sta facendo con il readymade qualcosa di analogo a quanto contemporaneamente si sta sperimentando nella fisica delle particelle, ossia di isolare (sospendere) una parte estremamente ridotta costitutiva della materia e dell’esperienza dell’arte, quasi per misurarne la carica elementare…[9]
Per rendere applicabile e praticabile questo criterio di separazione anche nel campo nell’arte, si è dovuto attendere che l’idea stessa di separabilità facesse il suo naturale corso storico tanto nella scienza teorica e sperimentale quanto nella produzione materiale che, tramite macchine combinate, allontana sempre più tra loro il lavoro dal prodotto, l’uomo dalla merce… In precedenza, a consentire a Galileo, Keplero e Newton di passare dalla meccanica antica a quella moderna è stata appunto l’idea di separare l’oggetto dal soggetto, di ignorare l’osservatore e ogni sua impressione sensibile potenziando la nozione di impersonalità delle leggi causali del visibile.
[ Anche l’Impressionismo e il pointillisme ricorrono ad aiuti scientifici, teorici e pratici (addirittura industriali: macchina fotografica e tubetti di colore già fatto) per iniziare ad allontanarsi (per mezzo del treno) dalla tradizione del passato custodita nel chiuso degli studi e nei musei… ]
Ecco allora la primaria necessità dell’indifferenza che Duchamp rivendica nei confronti del proprio oggetto, il readymade; e per agire con naturalezza e semplicità logica sul mondo immediato si fa lui stesso cieco, senza gusto, senza piacere, senza giudizio… “e con ciò, tutti i problemi (artistici) dell’ottica dei corpi in movimento (futurismo?) vengono ricondotti ad una serie di problemi dell’ottica dei corpi in quiete (cubismo)” [10]. Cubismo e Futurismo sono stati due momenti della pittura di Duchamp,  rapidamente superati e risolti, con gusto scientifico, nella complementarità statica del readymade?
[ Anche il materialismo separa (o meglio, distingue) il mondo dal pensiero, il fenomeno fisico dalla sua legge, o - come Darwin - la natura dalla volontà, ecc.. ]. ≠
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[9] . Intanto che nella patria naturale degli sconfitti delle rivoluzioni europee si preparano altre divaricazioni epocali, quali dada e bolscevismo, da vedere concatenate a quanto avviene nella scienza teorica e sperimentale dello stesso periodo. 
[10] . Forse parafrasi da Albert Einstein 1905?
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( l’artista come dispositivo di scelta )

Se è sostenibile l’analogia di uno svolgersi del lavoro artistico come in un laboratorio sperimentale di ricerca relativamente ad uno specifico materiale particolarmente complesso, nella "prensione" [11] da parte di Duchamp di un qualsiasi articolo merceologico (che i suoi esegeti definiscono: elezione, come fosse una confermazione cresimale, ove quasi null’altro è avvenuto che un semplice scambio di valore o una compera), egli magari neppure lo sospetta ma proprio l’indifferenza (che alcuni equivocano come dandysmo) lo ha regolato e reso un mero “dispositivo di scelta” impersonale
In una placchetta in bronzo Leon Battista Alberti si ritrae assieme all’emblema di un occhio alato che sembra essersi staccato dalla sua figura per volare nello spazio facendo ondeggiare i nervi strappati che, come dei ganci, lo connettevano alle passioni “di cui bisogna liberarsi”… L’emblema, ci dice Bredekamp, illustrerebbe “come gli atti iconici riescano a strappare l’occhio dal resto del corpo mediante l’energia risucchiante delle cose da vedere e da toccare, e con esso vengono anche strappati i tentacoli che incarnano le passioni … La sua (dell’occhio) onnipotenza è il prodotto di uno strappo provocato dalle cose … nei panni di una ferita capace di vedere e toccare, esso (occhio) diventa un organo volante e autonomo”. [12]
Di tutto questo discorso a noi qui interessa notare che l’idea dell’autonomizzazione (strappo, ferita) dell’occhio: 1. è provocata dalle inferenze tattili del vedere corporale; 2. che esige una separazione dalle sensazioni soggettive; 3. che appartiene alla tradizione del pensiero artistico, e propriamente rinascimentale.
E’ ora possibile dire che quest’occhio è rimasto volante per 400 anni prima di reincarnarsi nel fotografo? L’uomo, la cui mano si è autonomizzata dal corpo prima dell’occhio, si è infine ritrovato tra le dita anche l’occhio tattile e prensile di una banale macchina fotografica, che separa, isola e autonomizza la vista e lo sguardo, l’immagine e il gesto…
Il readymade sembra avere gli stessi caratteri di produzione di una fotografia scattata con indifferenza sul mondo circostante da un particolare dispositivo meccanico programmato: Marcel Duchamp, o l’istantanea messa in scena del reale. E sì! Lo si dice nei modi più involuti, ma il suo lavoro è tutto qui: nel gesto e nello scatto. Ciò che conta in arte è il risultato ottenuto in determinate circostanze; e questo risultato è l’immagine e non il modello, che il risultato raggiunto in quanto immagine, falsifica e smentisce.
[ A tanto giunge l’autonomizzazione dell’arte proprio nell’epoca delle autonomizzazioni della tecnica e dal capitale. L’illuminismo che alla fine del XVIII secolo aveva proclamato l’autonomia dell’arte (volgarmente intesa come l’arte per l’arte) sembra proprio che alla fine abbia portato a compimento il suo programma di mettere a distanza (estetizzante) il mondo, anche grazie all’attività delle avanguardie che, ciclicamente e in varie modalità empiriche, hanno dimostrato il movimento dell’arte procedere indipendentemente dalla volontà degli artisti. – La parola d’ordine borghese dell’arte per l’arte, presa di mira anche da certe avanguardie sulla base di un luogocomunismo produttivista e utopisticamente progettuale e costruttivo, risulterebbe al contrario sostenibile dal corretto parametro marxista che enuncia: “D'altra parte, se noi non potessimo già scorgere nascoste in questa società - così com'è - le condizioni materiali di produzione e di relazioni fra gli uomini, corrispondenti ad una società senza classi, ogni sforzo per farla saltare sarebbe donchisciottesco”… E come potrebbero farsi già presenti questi concreti elementi di condizioni e relazioni future se ad agire non vi fossero spinte reali incontrollate e incontrollabili dal presente e dai suoi abitanti?... ] ≠ 
    
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[11] . Cfr. L’uomo e la materia, André Leroi-Gourhan, pag. 33, Jaka Book, Milano 1993.
[12] . Horst Bredekamp, cit. p.270.
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( un battilocchio critico )

Dopo di che è quasi impossibile sostenere quanto lo stesso Duchamp dichiarerà in una intervista per Vogue a William Seitz nel 1963: - "Una vera storia dell’arte è una storia di singoli individui? - “Sì, uniquement; è la sola cosa che conti”. Ma qui, a ben vedere, a parlare è appunto l’artista separato dall’opera: pronuncia “storia dell’arte” ma pensa alle “vite” vasariane. Per noi, qui, il battilocchio sembra aver preso la parola per prendersi in parola.
A noi non interessa la persona del produttore ma il prodotto e il fatto, tutto il resto fa parte delle particolari condizioni al contorno (che comunque è bene conoscere per stabilire le approssimazioni più congrue). E’ tuttavia lo stesso Duchamp a confutare sia l’arte che l’artista quando al Salon de la locomotion aérienne del 1912 sfida lo scultore Constantin Brancusi facendogli notare che “La pittura è finita. Chi può fare meglio di questa elica? Dimmi, puoi farlo?”… E magari anche la sua proposta di usare un quadro di Rembrandt come asse da stiro sarà dovuta solo ad una radicalità borghese; ma sono appunto la radicalità e la conseguenzialità che borghesia e capitalismo non possono più permettersi senza negare se stessi… (e così l’arte ha infilato il readymade in un pertugio, dove rimane in attesa di una spinta risolutiva, annunciata ma impresentabile… come la scurrilità, rifiutata, di un orinatoio pubblico). 
[ Per verificare se quanto vado dicendo su Duchamp non sia interamente frutto della mia immaginazione ho voluto fare un unico sondaggio nella letteratura aprendo a caso un volume che lo riguarda [13], dove ho trovato l’intervista citata sopra, e nella quale Duchamp dichiara inoltre di aver affinato l’idea di scandalizzare “non solo il pubblico ma anche me stesso. Ho mantenuto questo atteggiamento tutta la vita. Non faccio mai nulla per compiacermi. Nemmeno una delle poche cose che ho fatto nella mia vita è mai stata portata a termine con una sensazione di soddisfazione… Dipingere per me costituiva un mezzo [rivolto] a un fine, non era fine a se stesso. Vede, fare il pittore per essere un pittore non è mai stato lo scopo ultimo della mia vita. Ecco perché ho tentato di intraprendere diverse attività – puri lavori di ottica e di cinetica – che non hanno nulla a che fare con la pittura. La pittura era solo uno strumento. Un ponte che mi conducesse altrove. Dove, non lo so. Non potrei saperlo perché la sua essenza dovrebbe essere così rivoluzionaria da non permetterne la formulazione” – ora credo di poter continuare. ] ≠

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[13] . Effemeridi su e intorno a Marcel Duchamp e Rrose Sélavy, di Jennifer Gough-Cooper e Jacques Caumont, Bompiani, Milano 1993 -  effemeride del 15 febbraio 1963, venerdì, New York.  
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( separazioni e simmetrie )
“La separazione tra lux e lumen, tra soggetto e oggetto, tra osservatore e osservato, con la conseguente distruzione della fisica olistica, fu un processo lungo e gravoso, che da ultimo risultò vincente per la stessa ragione per cui un analogo processo agì in tutte le altre parti della scienza: una volta operata la separazione, ne seguiva un sorprendente arricchimento del nostro mondo intellettuale e materiale… In questo modo fu possibile scoprire rilevanti proprietà di base della luce: la velocità finita di propagazione, l’esistenza di raggi luminosi oltre lo spettro visibile dell’occhio umano, l’analogia tra raggi di luce e altre radiazioni quali i raggi X, e così via.” [14] 
Fatte le dovute variazioni è possibile volgere l’esposizione di Holton dall’ambito della fisica a quello dell’arte e dell’estetica, e comprendere (ma anche spiegarsi) l’influenza e le conseguenze che il lavoro di Duchamp (per quanto falsificato in ambiente mercantile) non poteva non avere sugli svolgimenti successivi della produzione artistica pratica e teorica e dell’estetica in genere. Una volta ricavato il dato sperimentale utile bisogna farci i conti, e non si torna indietro.
Senza prima il radicarsi nell’epoca, il criterio di separazione (non certo dovuto a qualcuno singolarmente ma appunto ad un lungo processo nel quale, ad un dato momento, Duchamp ha agito come un “dispositivo di scelta” applicato alle cose del mondo circostante) non sarebbero potute avvenire tutte quelle ulteriori separazioni che sono state le condizioni alla base della netta diversificazione delle correnti artistiche delle prime avanguardie [ incluso il Surrealismo, che si giova della separazione della sensazione stessa tra quella conscia e l’inconscia (il tema della macchina, che Duchamp condivide con l’amico Picabia, è nel Surrealismo ravvisabile nella pratica dell’automatismo o dei cadavre-exquis: produzioni senza progetto - ma non senza lavoro pittorico) ].
Tutto porterebbe a dire che l’arte, esaurita la spinta istintiva a osservare e raffigurare mimeticamente il mondo circostante l’organismo sensitivo per conoscerlo e riprodurlo visivamente, una volta giunta a  separare l’opinione dalla scienza, abbia rivolto la sua attenzione sui modi stessi del suo conoscere e ri-produrre, con ciò estendendo il campo delle sue osservazioni ai processi mentali e strumentali che le regolano. Così magari avviene pure che un fastidio di natura estetica, dovuto all’asimmetria nel ricorso a due diverse equazioni (di Faraday) per il calcolo di una stessa corrente elettrica in casi diversi di un medesimo fenomeno – e che porrà ad Einstein il compito di relativizzare il problema in modo da poter usare una stessa equazione in entrambi i casi -, possa presentarsi (simmetricamente) come cruccio artistico nell’immaginazione di Duchamp - che risolve un’analoga asimmetria di giudizio per l’opera d’arte e per il prodotto industriale, relativizzando il punto di riferimento nella formula del readymade
[ Per l’arte Picasso e Duchamp sono stati i mezzi con i quali condurre, verificare (sperimentalmente) e raccogliere i dati utili a svolgere la critica di sé stessa in circostanze sia retiniche che mentali.
La natura è stata benigna con entrambi facendo dell’uno, un infaticabile sperimentatore della materia di cui fino allora era stata fatta l’arte; dell’altro, un tranquillo ricercatore delle attuali possibilità dell’arte e dell’artista di superare sé stessi. L’uno esaurisce le risorse del sistema dell’arte, l’altro ne mostra i limiti e li misura, senza badare alle accidentalità che si mostrano all’occhio, traguardando il suo sviluppo lineare in un punto singolare con il readymade quale regolo di misura e opera campione... che non rappresenta più la realtà ma ce la dice identificata con ciò che ci è dato immediatamente dagli elementi sensibili piuttosto che collocata fuori dall’esperienza immediata… e dunque ce la dà all’istante; è un qui e un ora  che ci convoca nel nostro tempo, separato dal passato ma gravido di futuro – e noi solo oggi “tocchiamo” letteralmente l’immagine, ed essa si mette subito a far moine e si dà un gran da fare per portarci fin dentro casa l’oggetto appena sfiorato dal nostro desiderio.
≠ > segue in seconda colonna >
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[14] . Gerald Holton, L’immaginazione scientifica, Einaudi 1983, pag, 106. - Per il rapporto arte-scienza è da segnalare l’interesse di Holton per il lavoro di Duchamp, anche se nel suo articolo sulla rivista Leonardo n.34.2001 (nel quale è citato anche il Picasso cubista) si limita a prendere in considerazione l’influenza sull’arte del 900 delle recenti teorie di spazi a più dimensioni (cfr. nømade n.16, ottobre 2019).
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( la base sociale dell’indifferenza )

Con il readymade si presenta nell’arte il criterio operativo di indifferenza che tra l’altro
«corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, come determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare.» [15]
E’ anche in ciò che il readymade corrisponde artisticamente alla rappresentazione della realtà sociale una volta depurata dalle ideologie? dai parametri propri al paradigma dell’arte corrente?... il bello, il piacevole, il significato…? … e liberare così chi lo guarda dall’infatuazione per i valori eterni dell’arte?...
Non è anche così che non si ha proprio più nulla da perdere e nemmeno alcunché di provar nostalgia?
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[15] - Marx, Lineamenti.., Nuova Italia 1971, pag. 31-32]
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( continuità e legami )

Tuttavia dei legami di continuità con il mondo dell’arte e la sua storia, per quanto deboli, il readymade li possiede e mantiene, sia per la sicura provenienza del suo autore dalla pittura (di cavalletto, e cubista), sia per l’analogia con l’attività complessiva di un Leonardo, interessato anche lui alla conoscenza scientifica e al tema della macchina (tema forse del tutto ignorato nella pittura di Picasso, anche quando lo si aspetterebbe; come per Guernica, dove gli unici cenni alla macchina e alla modernità sono affidati alla ruota di un anacronistico carro e alla lampada elettrica che si contende la scena con un sentimentale lume a petrolio… - poco male se il tutto è potente).
Tanto i legami con la storia dell’arte precedente appaiono deboli in Duchamp quanto quelli di Picasso risultano forti: Goya, Velazques, Poussin… Ma la sua testa di toro del 42 ha più a che fare con la bizzarria manierista di un Arcimboldo (allievo di Leonardo e non a caso riscoperto e rivalutato proprio nel XX secolo) o con accrochages di residui coloniali eseguiti da nativi – e siamo pur sempre nell’africanofilia primitivista del cubismo [oggi, il diffuso spirito ecologista farebbe del suo toro il risultato di un lodevole processo di riciclaggio dei rifiuti eseguito “creativamente”: artisticamente, appunto].
Il fatto è che i legami forti mantengono compatta la materia in esame (autopoieutica, coazione ricorsiva, citazionismo, autoreferenzialismo) mentre quelli deboli favoriscono la ricombinazione e il mutamento di forma, e cioè le sue capacità evolutive, la possibilità e probabilità di un  futuro, prevedibile e previsto… Forse, dunque, anche le sue necessità rivoluzionarie?...
Nel momento in cui si presenta il readymade è una forma ibrida ma non incerta: con la sua palese forma merceologica vuole sbaragliare e dissolvere proprio la vecchia forma dell’arte convenzionale.
Che abbia rappresentato una vera minaccia per il sistema e per il comparto, potrebbe essere dimostrato dal fatto che prima di masticarla a dovere si è dovuto attendere il tempo di porchettarla ignobilmente con qualche alloro del passato, a volte con le spezie scadute dell’alchimia o i pimenti forti della pornografia. Che abbia poi svolto appieno la sua attività dissolvitrice è più problematico stabilirlo; ma l’attuale produzione parodistica delle arti visive e la proliferazione compulsiva delle immagini   lascia supporre che abbia fatto abbastanza di quanto aveva in programma…
[ Immaginazione per immaginazione… non è impossibile ravvisare in una merce eccellente dell’era tecnologica come lo smartphone i tratti sottostanti del readymade duchampiano che ha trovato soluzione nella forma superiore di una Bôite-en-valise di massa che non si limita a far da deposito di ogni già fatto ma è divenuta lei stessa autonoma produttrice e distributrice di immagini connettive… ] ≠

( autonomizzazioni e coazioni rivoluzionarie )

Se il readymade è, come si detto, un risultato in arte della separazione di principio dell’oggetto dal soggetto, dall’altra non possiamo evitare di trovarci con una autonomizzazione dell’artista, sempre alle prese con ambigue ricette di complementarietà che, in un modo o nell’altro possono mantenerlo alla destra dell’opera d’arte… Solo che, arrivato a questo punto, adesso basta un nulla per dissolvere la sua figura sociale per come l’abbiamo conosciuta finora.
Di fronte al readymade, pertanto, non interrogherei Duchamp, ma il fatto e le circostanze nelle quali un qualsiasi “bell’e fatto” dall’industria possa trovare, ad un determinato grado di sviluppo, una sistemazione anche nella filogenesi dell’arte di un dato periodo. Certo, tale interrogativo non ci si porrebbe davanti ad un raschiatoio d’osso decorato con una teoria di cervi prodotto nel paleolitico superiore, dove prenderebbero ad agire criteri e valutazioni di ordine antropologico o altro, e non quelli richiesti dall’oggetto attualmente preso in esame: una ruota e uno sgabello tuttora in uso, in un museo d’arte e non di archeologia.
Agli inizi del secondo decennio del ‘900 gli oggetti di Duchamp hanno già tutti le fattezze e i propositi di prototipi e stampi industriali che nell’arte attuale potremmo solo indovinare andati a nascondersi dietro trattamenti cosmetici, parodistici di tutti gli stili del passato [arte attuale, ossia quella di un sistema chiuso, con il massimo di entropia (disordine) tuttavia a vocazione omeostatica (conservativa)].
Se è vero, come è vero, che la rivoluzione la fanno le cose e le forze e non gli uomini con la loro volontà, cos’altro è un readymade se non una cosa, e una cosa da nulla, che alza la sua testa vuota contro l’attuale stato delle cose?... [16]
Come il capitalismo è costretto a rivoluzionare sempre sé stesso, anche l’arte del capitalismo è costretta a fare altrettanto, di pari passo e fino a dissolversi assieme alla dissoluzione della sua forma stessa di produzione, con o senza la consapevolezza di Duchamp o di un qualsiasi altro artista.
Se però qualcuno cercava un algoritmo compresso per traguardare l’arte figurativa dell’intera epoca del capitalismo stramaturo, non credo possa trovare qualcosa di più rappresentativoe proficuo del poco mirabile readymade e del multiforme lavoro di Duchamp con l’immagine e la lingua [17]. ≠
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[16] . Nel 1928 Hans Richter realizza in Germania il film Fantasmi a colazione, che ha un significativo sottotitolo: La rivolta degli oggetti.
[17] . Si allude ai testi che dal 1914 Duchamp raccoglie nelle sue varie boîte, e particolarmente nella Boîte verte del 1934. In tutte vi troviamo una vasta raccolta di note che riguardano i suoi processi di produzione e i significati, con motivi visivi e linguistici cui era interessato durante il suo periodo più produttivo. Hanno funzione simile a quei libretti di spiegazioni d’uso che accompagnano ogni prodotto industriale, semplice o complesso che sia.
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( giocolieri e illusionisti )

Credo di ricordare che qualcuno ha già associato Duchamp all’illusionismo. Non è dunque sconveniente associare Picasso alla giocoleria.
- Nella pista dell’arte il giocoliere prende in mano degli oggetti qualsiasi e con destrezza li fa vorticare nell’aria per farli ricadere di volta in volta disposti in modo tale da potervi ravvisare ora le fattezze di una chitarra, ora di un toro e così via, in figure ogni volta diverse. Esibizione di inarrivabile coordinamento dei gesti, di agilità fisica e immaginazione, che rende unico chi la possiede e meritevole di  viva ammirazione. Un pubblico strabiliato e appagato nelle sue legittime aspettative lo ripaga di applausi.
- Alla volta viene l’illusionista. Mostra un lucido cappello a cilindro e annuncia trionfante: ceci n’est pas un lapin. Il depistaggio di questa solenne banalità ha creato una forte aspettativa e il pubblico attende una svolta stupefacente. Ma non accade altro. L’esibizione era tutta lì: un deludente qui pro quo da vedere?... L’inverso del gioco – credo abbia detto Freud – non è la serietà ma la realtà. E’ forse colpa dell’illusionista se un pubblico ostinato preferisce lasciarsi sedurre, ingannare, consolare, invece di godere della realtà che balza agli occhi? All’illusionista che voleva criticare sé stesso, non resta che scrollare il capo e sorridere…
Forse mi sono perso. Ma quello che intendevo dire, tra le altre cose possibili, è che mentre le abilità dei giocolieri sono legate alla sua persona, le abilità degli illusionisti sono dovute a dei trucchi esterni alla persona e tali che, conoscendoli, chiunque altro potrebbe praticarle.
Abilità incarnate nelle persone e abilità esteriorizzate nella conoscenza.
Essendo il giocoliere un tutt’uno con le sue proprie capacità personali, e l’illusionista un nessuno senza il ricorso a risorse esterne la sua persona, chi dei due è suscettibile di trasformarsi più facilmente in un “battilocchio” pubblico…?
Ma è più interessante osservare che mentre la giocoleria è limitata dal raggiunto sviluppo biologico dell’organismo umano e la sua evoluzione fisiologica si è praticamente fermata da parecchi millenni, l’illusionismo, che si affida ad artifizi esterni all’organismo biologico, trova fuori di sé la possibilità di evolvere al passo delle evoluzioni tecniche. Pertanto, mentre la giocoleria si mantiene sostanzialemente immutata da secoli e senza futuro, l’illusionismo avrà le proprie rivoluzioni e – passando per un Méliès [18], allievo del famoso Robert- Houdin – guadagnerà il futuro dello sguardo cinematografico e delle nuove spettacolarità. 

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[18] . Stando alle sue stesse parole, egli era: dessinateur, décorateur, illusioniste, auter de scénario, metter en scène et artiste principal de toute ses composition. Dal 1896 al 1914 Georgies Méliès produsse, lavorando solo con capiale proprio, una quantità innumerevole di film, si dice cerca 4000.
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Seconda versione della "sospension ethereénne" eseguita nel 1849 da Robert-Houdin con il figlio Eugéene. Da Souvenir des Soirées Fantastiquees - tome second, 1849.

( la merce e le stigmate )
Senza contare che nei musei di arte moderna si espongono oggetti di uso comune, come cavatappi, stoviglie, poltrone e lampadari. Come fa notare Leroi-Gourhan, la cosiddetta arte ha solo 50.000 anni, 15.000 se consideriamo raffigurazioni complesse, meno di 200 se l'intendiamo come merce, mentre l'industria ha almeno 4 milioni di anni, cioè l'età degli ominidi. Quindi la vera divisione è nel passaggio dall'industria umana alla merce, non dalla tecnica all'arte.[19]

La demarcazione, o il salto evolutivo che porta ad una nuova ramificazione delle linee di sviluppo dell’arte, consisterebbe nell’aver collocato sul piedistallo dell’opera d’arte moderna un qualsivoglia prodotto dell’industria umana nel suo attuale sviluppo tecnologico, ossia del capitalismo (ossia null’altro che una “merce”) e con il minimo dispendio di lavoro, vale a dire senza aggiungere al lavoro passato nient’altro che qualche segno tipizzante un prodotto riconducibile ad un singolo produttore: sull’oggetto una firma in funzione autenticativa per la piena soddisfazione della proprietà giuridica, cui si aggiunge, per battesimare l’oggetto, una dicitura a piacimento nello spirito dell’epoca (come il cartiglio nei crocifissi o le narrazioni edificanti nelle immagini sacre).Esclusivamente su questi elementi di sigillo (firma e titolo dell’opera) si poggiano le garanzie che tengono il readymade (un qui pro quo della merce) nel seno della nobile famiglia delle opere d’arte. A ben vedere basta un affidavit a lasciar passare una merce qualsiasi nel regno dell’arte: “Ceci n’est pas une merchandise… parola mia e del mio avvocato!” - dice il mercante di sale [20]… Ma il gioco è troppo scoperto per cascarci.
[ Il capitalismo non è un sistema soltanto prevalentemente autoreferenziale, lo è anche totalmente in ogni sua porzione frattale – e la geometria dell’arte è la medesima geometria che osserviamo in qualunque altra attività dell’industria dell’uomo. ]   ≠
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[19] . L’industria dell’uomo, nella rivista n+1, numero 19, aprile 2006, pag. 28.
[20] . “Marchand du Sel ”, anagramma omofonico di Marcel Duchamp.
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( una mossa evangelica imbarazza l’uomo )

Con il readymade sulla scacchiera il rinnegato dell’arte ha tuttavia fatto la sua mossa. Mossa azzardata ma pur sempre possibile, probabile e obbligata: una volta stabilito un principio, poi inferenza segue ad inferenza. Mossa conseguente, cioè, al suo dipinto della macinatrice di cioccolato, che è una resa in forma pittorica dell’immagine tecnica di una macchina in rappresentanza di ogni qualsiasi altra macchina che, opportunamente combinata con altre macchine, è parte dei processi lavorativi attuali per la produzione in milioni di esemplari di oggetti non rappresentati ma concreti, quali una bicicletta, un attaccapanni, un pettine  o un orinatoio in porcellana…
Mi viene in mente van Gogh che, nel periodo in cui l’uomo era ancora presente nella produzione con tutte le scarpe, dipinge prima telai a mano per la tessitura e poi le sue scarpe; tant’è che Vincent ce lo fa vedere intento al telaio o nelle suole consumate dall’uso.
Ma nel periodo del pieno sviluppo industriale in cui vive Duchamp la macchina e la merce dominano, e sono diventate tanto scintillanti quanto indifferenti all’uomo, al suo lavoro e all’uso stesso degli oggetti che egli produce, cosicché  a petto loro l’uomo sfigura e scompare senza danno alcuno. Il readymade riduce drasticamente la densità dei significati che popolano l’immagine ambigua ed impone una chiarezza maggiore di quella esistente nella percezione della realtà; è così che la semplice assenza della figura dell’uomo dall’oggetto e dall’immagine aiuta in qualche modo a conoscere le determinazioni sociali del suo venir meno nell’industria e nell’arte. 
« Se le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare gli uomini. A noi, come cose, non compete. Ma quello che, come cose, ci compete è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre proprie relazioni come cose-merci. Noi ci riferiamo reciprocamente l’una all’altra soltanto come valori di scambio.» [21].
Se le cose come merci non parlano con gli uomini, le cose come prodotti gli dicono sempre qualcosa, dato che secondo Hildebrand [22] conoscerne l’immagine equivale a conoscere il processo che li realizza. ≠ > leggi N.d.R. 4
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[21] . K. Marx, Il Capitale. 1.1. pag. 97.
[22] . Adolf von Hildebrand, Il problema della forma nell’arte figurativa (1893), ed. G. D’Anna, Messina 1949. – Lo scultore e teorico Hildebrand ovviamente si riferisce alla conoscenza dei particolari procedimenti pratici con cui viene realizzato il prodotto artistico; ma la formula ha validità anche estesa per tutti gli oggetti prodotti, tra cui vanno incluse le immagini stesse che ri-producono l’immagine di ogni prodotto.
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( proprietà e non-proprietà degli strumenti di produzione )

– “Allora prendo a caso un prodotto qualsiasi, un orinatoio o un paio di scarpe, appena fatti dall’industria attuale al solo scopo di trasformarli in null’altro che in moneta corrente, e dunque buoni per ogni uso, o anche inutile o artistico” – conclude Duchamp senza tener conto della dimensione artistica del passato.
In tutt’altri modi questo lo dirà poi anche Warhol, ad esempio - mettendosi però al lavoro con la sua immobile factory, organizzata sul tipo ancora artigianal-manufacturiero, mentre Duchamp da oltre mezzo secolo il suo “lavoro artistico” lo svolgeva già tutto tramite leasing strumentale (senza nessun mezzo proprio) per ottenere in proprietà null’altro che il prodotto finale.
Non mi risulta che Duchamp abbia mai posseduto o aspirasse ad allestire e mantenere un atelier con degli aiutanti salariati. Negli appartamenti che affittava cercava solo di ritagliarsi un angolo in cui accatastava i suoi lavori, e quando gli occorreva faceva ricorso ad artigiani e alla loro bottega - e per noi è come dire che si era liberato anche dalle proprietà immobili per badare solo all’impresa.
[ In qualche modo già gli impressionisti avevano avviato questo processo di “rottura dei limiti di azienda” affidando la preparazione dei colori all’industra chimica delle vernici e all’impiego del treno per affrancarsi dal localismo immobiliare degli ateliers e dai rispettivi oneri finanziari. ] ≠

( spazi a n dimensioni  )

E’ probabile che non sia proprio così ardito da essere originale sostenere che tutti i readymade in realtà non sono affatto oggetti tridimensionali (sculture) ma delle “pitture”, delle immagini o meglio delle fotografie; ovvero oggetti di uno spazio a 2 dimensioni, prive cioè della profondità e del tempo. Così come Duchamp avrebbe utilizzato lo spazio a 4 dimensioni per la Marieé (cfr. nota 15) potrebbe aver utilizzato uno spazio a 2 dimensioni per concepire il readymade, sopprimendo la profondità con lo spaesamento e il tempo (della storia dell’arte) con il non cale.
Ma prima che questa volontaria riduzione delle dimensioni potesse applicarsi in arte, doveva presentarsi già come realtà naturale di tutte le cose: prodotte come merci, ossia come valore di scambio, esse sono ridotte alla bidimensionalità cartacea della moneta grazie alla loro equivalenza generale (e riducibili inoltre alla dimensione unica del numerario)
In quali altri modi si presentano simili riduzioni nelle dimensioni degli oggetti?
Forse anche così:
« Un vestito non diviene realmente un vestito che per l’atto di portarlo, una casa che non è abitata, non è in effetti una vera casa; il prodotto, quindi, a differenza del semplice oggetto naturale, si afferma, diviene prodotto soltanto nel consumo. » [23]
Sul piedistallo dell’arte una ruota di bicicletta, un orinatoio o un pettine interdetti all’uso conforme, non sarebbero in effetti una vera ruota di bicicletta, un orinatoio o un pettine; lo sono forse solo in potenza ma nella realtà sono delle spoglie fantasmatiche che possono facilmente trasmigrare come voci in un catalogo… Io, ad esempio, non sono mai andato a vedere un readymade esposto, dato che non aveva altro da mostrarmi che non mi avesse già fatto sapere l’informazione. E’ dunque probabile che si tratta di un’opera tascabile, un souvenir da mandare a memoria, conducibile come una “nozione” espressa in forma iconica… – e su tali nebulose accezioni sarebbe concorde lo stesso Duchamp, alla ricerca di una pittura non più soltanto ottica.
Col tempo il corpo del readymade in arte sembra divenir sempre più una mera epifania fotografica. Ed infatti ha sempre dato il meglio di sé quando non viene disturbato dalla realtà empirica tridimensionale nella quale è surrettiziamente mostrato al Museo d’arte o fraudolentemente venduto al collezionismo privato come un trofeo.  D’altronde fin da quando venne inventata l’utilizzo della fotografia è stato fondamentale anche per lo studio dell’arte antica e classica. ≠
> leggi N.d.R. 5
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[23] . K. Marx, Lineamenti fondamentali…, Nuova Italia, Firenze 1971, pag. 15.
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( senza progetto )

Quando il commercio (riporta Marx) separa l’ombra dal corpo, il bene d’uso dal valore, la moneta dal capitale, il capitale dal capitalista, il lavoro dalla tecnologia ecc., queste ombre separate prendono forza autonoma e trovano proprie leggi a governarle; l’uomo può solo dirigerle… però, se le conosce.
Anche l’arte separata dall’opera ha leggi proprie che la regolano e sospingono avanti senza curarsi delle persone e delle loro prime o ultime volontà.
Voglio dire che non importa poi tanto sapere cosa voleva Picasso o Duchamp e, con una inversione che ci è familiare, formulare l’idea che neppure loro hanno scelto l’arte, ma piuttosto sono stati scelti dall’arte per i suoi propri scopi. Così come le persone, neanche gli organismi o readymade sono dovuti ad un progetto finalizzato, ma ad un programma limitato; e difatti Duchamp solo a posteriori cercherà di speci-ficarlo.
Accumulando nelle sue scatole e valigie degli anni ’40 tutto ciò che aveva fatto negli anni precedenti sotto il dominio dell’arbitrarietà e senza trascurare i dettagli più fugaci, Duchamp sembra voler produrre oggetti sempre più complessi e superiori con metodo “darwiniano”: datemi il Tempo di mettere Ordine e vi darò il Progetto (dell’arte) con il suo scopo [24]. 
Come si è arrivati a chiederci, con una qualche utilità cognitiva, “che cosa vuole la tecnologia”, potremmo forse porre lo stesso tipo di domanda al riguardo di una determinazione particolare della tecnologia come la produzione artistica per chiederci “che cosa vuole l’arte? “. ≠
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[24] . Daniel C. Dennett, L’idea pericolosa di Darwin (1995), Bollati-Boringhieri, Torino 1997, p. 80: “[dice Darwin] Lasciate che parta con le regolarità - la semplice regolarità fisica, priva di uno scopo, di una mente e di un significato - e vi mostrerò un processo che alla fine genererà prodotti che mostrano non soltanto la regolarità, ma un progetto che ha un obiettivo.”
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( autonomizzazione dell’arte )

Attribuendo all’arte una capacità volitiva forse troveremo, nelle vicende che la riguardano, anche qualche significativa determinazione causale accostando, ad esempio al readymade, invece che il toro picassiano i collages cubisti.
Probabilmente vedremo che in un frammento di paglia di Vienna, in un campione di carta da parati o in un pezzo di giornale comprato all’edicola e incollati semplicemente sulla tela per rendere illusionisticamente la scena di un interno cubista, è gia presente una spinta che porta l’arte del primo novecento a risolversi necessariamente e compiutamente nel readymade.
Si darebbe cioè visibilità ad un vettore che magari parte da lontano; forse dai cartigli nelle nature morte della pittura fiamminga, ad esempio, e che, opportunamente depurato dalla condanna cristiana della vanitas vanitatum, arriva al Cubismo (mercificazione dell’arte e mineralizzazione della vita) per giungere finalmente a rappresentare (in arte) il carattere distintivo dell’intera epoca capitalistica… che deve rinvenirsi nell’intrapresa e non nella proprietà. Eccolo enuclearsi così l’enigma dell’arte nell’epoca dell’autonomizzazione del Capitale? 

… è già un rapporto economico tutt’altro che nuovo quello in cui rinveniamo aziende capitalistiche cui non corrisponde più nessuna forma di proprietà immobiliare, ed in taluni casi nemmeno una sede fissa ed un apprezzabile macchinario e utensilaggio, mentre tuttavia la dinamica del processo capitalistico sussiste in pieno e nella sua forma più squisita. Si avvia così una specie di divorzio tra proprietà e capitale per cui il secondo si smobilizza sempre più e la prima si diluisce, si dissimula o viene anche presentata come una proprietà di enti collettivi nelle statizzazioni, socializzazioni o nazionalizzazioni che pretendono di essere considerate forme di gestione non più capitalistiche.[25]
Gli esperti usano dire che con il readymade un artista, nella "totale assenza di buono o cattivo gusto", si limita a scegliere un articolo qualsiasi prodotto in serie per “elevarlo” allo status di opera d'arte. Anche detto così venerabilmente, il readymade ravvisa proprio il risultato di una intrapresa condotta a credito, senza mezzi propri, esclusivamente in vista della rendita.
E’ dunque il rentier la musa segreta dell’artista moderno? ≠
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[25] . Amadeo Bordiga, Proprietà e capitale, Iskra, Firenze 1980, pag. 38.
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( produzione materiale e rendita )

Che il rentier possa essere il modello ideale dell’artista moderno verrebbe avvalorato anche dall’ozio praticato e teorizzato da Duchamp, probabilmente dovuto più ad un contegno blasé derivatogli dalla servizievole classe di provenienza alto borghese alimentata esclusivamente dalla rendita (il padre era notaio) che derivato o ispirato direttamente ad una rivoluzionaria confutazione operaia del lavoro (tanto salariato che in assoluto). L’artista D come “dispositivo di scelta” (Ds) è preparato dalle circostanze storiche materiali ad agire in un modo determinato dalla sua condizione di classe.
In altre parole, dato che
« il contegno reale pratico dell’operaio nella produzione e rispetto al prodotto (come stato d’animo) si presenta nel non-lavoratore che gli sta di fronte, come contegno contemplativo » [26], è del tutto probabile sia accaduto che da un determinato oggetto bell’e fatto un Duchamp-non-lavoratore (ma non affetto da dandysmo) abbia ricevuto dal proprio contegno contemplativo un piacere estetico e un godimento tale da associarlo alle sensazioni personali avute davanti ad ogni altra indiscutibile opera d’arte. Da ciò, a prendere uno di questi oggetti prodotti a milioni e metterlo a profitto, il passo è facile e breve, per quanto aleatorio. ≠
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[26] . K.Marx – Opere filosofiche giovanili , Editori Riuniti, Roma 1969, pag. 205.
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( fotografia . cinematografia )

A ben vedere il readymade è fatto appositamente per l’occhio meccanico e indifferente della fotografia, non più per quello empatico degli uomini (richiesto e implorato solo dal mercato dell’arte e dal turismo). E quasi niente altro che fotografie sono state per mezzo secolo l’orinatoio, la pala o la ruota: cose da nulla o souvenir dozzinali deprivati volutamente anche dell’affezione provata da un Man Ray.
Il viaggio non si fa per prendere souvenir”, era scritto sui manifesti di un’agenzia turistica. Tuttavia il souvenir (statico, fotogrammatico) fissa la memoria di un viaggio fatto per diletto o conoscenza, più o meno piacevole, più o meno proficuo, mentre il readymade (dinamico, cinematografico) svolge la sua memoria, e la mostra nel tempo (le note raccolte in Marchand du sel e nelle sue varie Boîte). La stessa ruota di bicicletta risolverà la sua virtuale rotazione nella cinematica di Anémic Cinéma…
Duchamp non scopre e coglie la fotogenia dell’oggetto (merce), ma letteralmente la costruisce metodicamente e se ne prende cura abbandonando l’oggetto come inutile spoglia [27] nelle mani della fotografia. Anche Picasso abbiamo visto capace di abbandonare l’oggetto [28], ma il tema se lo riprende ogni volta con la mano della pittura, e dello stesso anno 1942 del toro in bicicletta difatti è la sua pittura ad olio di una testa di toro conservata a Brera...
Diversamente da Picasso il personaggio Duchamp non si mostra volentieri al lavoro in posa d’artista; ed anche la sua semplice presenza nelle fotografie in cui è ritratto trascina ogni altra cosa presente nell’immagine e l’intero ambiente nella sua propria distaccata sicurezza per l’assuefazione all’improntitudine - comune al giocatore di scacchi e al benestante compensato dalle proprie intraprese nel campo dell’arte o in quello impiegatizio, nel commercio dei quadri o nella scacchistica professionale, nella produzione di strumenti ottici o nelle concessioni alla moda femminile...
Un’osservazione troppo attenta di molte fotografie che ritraggono Duchamp procura una particolare sensazione di ineffabile. Si è portati a supporre che qualche altra cosa di imprecisato sia accaduta  al momento o dopo l’avvenuta separazione dell’artista dal suo oggetto il quale, oramai emancipato da ogni interesse per le connessioni fisiognomiche, si è forse somatizzato nell’artista, oggettizzandolo, come per rendergli pan per focaccia… E’ anche per questo che Duchamp non ha mai scattato una fotografia?... perché i suoi lavori e lui stesso altro non erano che delle fotografie già bell’e fatte?...
[ Un continuo andirivieni tra le cose fin qui evocate sembra impedire al nostro sguardo di decidere un fuoco ottico e un’unica definizione concettuale per il readymade e per Duchamp, che forse non sono altro che delle particelle che si esprimono in una cinematica di connessioni variamente combinate, e non in una statica di contemplazioni. ]

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[27] . Spoglia che il mercato falsifica per i propri scopi – con Duchamp che, da coerente rentier, si lascia corrompere per portare al necessario compimento la sua propria impresa.
[28] . Cfr. qui nota 5.
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( bluffeurs )

Ci sarebbero altre cose che i nostri due artisti condividono col sistema del credito – oltre ai diversi modi di starsene seduti (uno sul sellino, l’altro sullo sgabello) nelle sale d’attesa delle Banche.
Mi riferisco a noti episodi di cambiali rilasciate da Picasso e mai riscosse dato che la firma valeva più del valore monetario segnato e promesso. Sembra che presso Duchamp simili furbizie occasionali abbiano trovato una risoluzione “artisticamente” stabilizzata e dunque ricorsiva.
Incapace di pagare il suo dentista americano (Daniel Tzanck) in contanti, nel 1919 Duchamp realizzò (con caratteri fatti a mano ma imitando quelli di stampa) un assegno con l'importo che gli era stato addebitato, e lo firmò. Ancora, dopo qualche anno, nel 1924, stampa una litografia in 30 esemplari che contraffà delle obbligazioni di 500 franchi al portatore emesse dal casinò di Monte Carlo per tentare il giuoco della Roulette con un sicuro sistema di cinque giocate che aveva studiato e riportato sulle obbligazioni: un meditato piano di attacco contro il caso.
Il certificato emesso da una Banca vale la merce emessa da una fabbrica: entrambi falsificabili. Per una vita a credito dell’arte allora si firmano cheques o cambiali come si possono firmare orinatoi in porcellana o altro – gli stessi i Governatori delle banche centrali fanno simili manipolazioni numerarie con carta filigranata.
Pare proprio che l’artista di cui ci stiamo occupando non abbia trascurato alcuna forma di intrapresa per alimentare la sua contabilità, neppure il gioco di borsa e l’azzardo: se  Dio non gioca a dadi il Capitale non fa null’altro.
Ed è come dire che è previsto nelle regole del giuoco delle valorizzazioni (materiali o immateriali) dell’epoca capitalistica se una particolare intrapresa succedanea a quella di Duchamp possa non realizzare alcun valore e fallire: il salto del cavallo non porta di per sé a vincere la partita… – anche se adottando il sistema duchamp molti rappresentanti delle neoavanguardie del secondo dopoguerra e singoli artisti dell’attuale postmoderno hanno lucrato una buona giocata. Solo al banco del mercato, però, non a quello della storia e dell’arte, per le quali contano solo i risultati che per la prima volta operano una discontinuità, sostanziale e non decorativa, del loro normale decorso. E tanto vale per la merda in scatola di Manzoni come per la pletora di quanti lavorano spigolando nella fenomenologia duchampiana o nelle ricette lasciate per strada dalle avanguardie, accettabili solo in funzione di verifica, precisazione e fissione dei dati ricavati in momenti singolari delle polarizzazioni artistiche.
D’altronde una qualsiasi nuova ipotesi o modalità operatica (scientifica, artistica o altro) non può essere creata e sottoposta alla prova facendo il ciclo delle verifiche una sola volta, ma per affermarsi ed essere accettata deve percorrere questo ciclo più e più volte, sfruttando il risultato del ciclo precedente per gli adattamenti successivi di tutti gli elementi conoscitivi, empirici e razionali che la costituiscono.
E così neppure la loro eventuale “bellezza” la si trova bell’e fatta, ma come risultante statica dei vettori di questi cicli di verifiche quando giunge ad un grado superiore nella correttezza rappresentativa nella realtà della sua propria epoca.
[ Per essere costruita ed ergersi, la “bellezza” richiederebbe almeno dei parametri vettoriali corretti (scarsi nella manualistica scolastica, dove prevalgono le moralità della malafede e abbondano i luoghi comuni scientifici, storici o politici). E questo è il problema dell’arte attuale che volentieri intanto si è messa a raccontar frottole. ]
 

( l’azzardo, il suo piacere e il nostro )

Il banco, l’azzardo e il caso: ecco chi altri prende la scena in molte manifestazioni delle arti moderne (da Leautremont all’astrattismo al surrealismo) e domina sulla loro eventuale riuscita – favorendo per altro la ricerca scientifica dell’attuariale, dello statistico, del revisionale ed il moltiplicarsi delle immagini visive dei rispettivi modelli geometrici e diagrammatici dalla cui presenza ubiquitaria e quotidiana non è più possibile sottrarre lo sguardo e l’attenzione, incidendo così anche nella formazione del giudizio estetico di un’epoca, e a fortiori del gusto e del piacere personale.
Perché certo anche in questo, nell’uso dei piaceri, doveva essere avvenuta in Duchamp una modificazione che gli faceva attingere piacere dalla visione dei disegni tecnici di progetti di macchinari moderni…
Forse il readymade non è neppure un “oggetto” del desiderio bensì un oggetto desiderante – come può esserlo anche un pulsante di avvio per un programma di riflessione sui propri codici sorgenti… Proprio così credo che abbia funzionato e continui a funzionare il readymade – e la quantità di fogli con annotazioni e appunti che lo accompagna confermerebbe questa ipotesi [fogli che appaiono simili a quelli dei quaderni di laboratorio in cui coscenziosi ricercatori raccolgono dati e osservazioni durante i loro esperimenti scientifici].

Così, dopo esser stato artigiano con bottega e poi creatore geniale ed onorato, l’artista dell’epoca del capitale sembra terminare la propria secolare carriera come rentier, falsario e bancarottiere.
Se una delle principali conseguenze dell’arte è quella di mostrare visivamente (rispecchiare) lo stato delle cose dell’epoca in cui è prodotta l’opera, sembrerebbe che il puro readymade sia proprio la forma squisita per rappresentarla unitamente alla rappresentazione dello stato sociale del suo stesso artefice: l’artista - che intanto non può più dissimularsi quale moderno maestro artigiano in continuità con l’epoca rinascimentale.
Che poi ci siano ancora oggi, e forse continueranno ad esserci domani, delle modalità pratiche produttive di arte del tutto simili a quelle delle tradizionali botteghe artigiane, non contraddice affatto il nuovo e del tutto diverso stato delle cose, tanto delle opere quanto dell’artista. Viviamo in un sistema chiuso e finito, immersi e  a contatto diretto e vivo con tutte le forme che la natura fin qui ha prodotto, e soprattutto con quelle che nel frattempo son diventate forme morte e fossili ingombranti nei musei.


( esperienza e delusione )

Che poi, alla prova dei fatti, cioè dell’esposizione in luoghi deputati all’ammirazione sacrale dell’arte, questa roba di Duchamp risulti assolutamente deludente nel confronto con la produzione artistica del passato (e d’altronde l’uomo non può conoscere altra arte che quella del passato, ossia quella già fatta, raccolta nelle discariche di rifiuti dell’uomo primitivo o negli scintillanti musei del turismo moderno) non fa che confermarne la rispondenza del readymade all’attualità delle cose. E inoltre che, magari non solo il readymade ma certamente l’arte nel suo odierno sviluppo, ha espresso una propria necessità di liberarsi di quel “sublime” che ancora la tiene legata alla vecchia forma di produzione e, con un prematuro colpo di mano si divincola dai legami della manifattura artigianale dell’oggetto artistico e dai luoghi del consumo ufficiale dell’arte [quasi così come abbiamo auspicato che il piccolo contadino si liberi dalla miseria del suo campicello, l’operaio dai limiti dell’azienda, ecc.], ma intanto non può incontrare altro che un mondo di merci: è forse colpa di Duchamp se si guarda attorno e non trova più la scena rupestre di un idillico Parnaso ma la spianata di un centro commerciale?
Fosse solo a mostrare lo stato nebuloso delle cose dell’arte e dell’artista nel loro attuale periodo che è servita l’intera sperimentazione duchampiana, c’è da concludere che quanto meno è stata utile al nostro tentativo di fare qualcosa ancora per quella chiarezza che ci serve.
≠ > leggi N.d.R. 6

( merce in mostra )
Ma c'è una freccia del tempo che rende irreversibili i processi sociali: l'attuale modo di produzione perde vitalità, le sue strutture collassano a causa dell'entropia, e in parallelo si sviluppano forze antiforma. La tensione fra conservazione e rivoluzione non può durare all'infinito, la svolta è inevitabile.
La “delusione” che i readymade provocano nel non attivare il godimento estetico che “dovrebbe” accompagnare la loro esposizione al pubblico dell’arte, è là per metterci sull’avviso che già da tempo si sono aperti pertugi e tentate vie di fuga anche da parte dell’arte dall’ormai inadeguato involucro in cui si vorrebbero costringere gli sviluppi delle forze sociali della produzione materiale come di quella immateriale.
Che poi il sistema capitalistico voglia sistemare nel proprio ambito (mercato) e mantenervi a forza anche certi immaturi o prematuri colpi di mano per poterci lucrare sopra è del tutto prevedibile dalla sua natura – che ha nell’incessante valorizzazione del capitale il suo unico scopo – e non determinato dalla volontà furbesca di singoli o associati in complotti e manovre, che non avrebbero retto al vaglio ormai secolare del cervello sociale (il quale è parte attiva del ciclo delle verifiche di cui si è detto in precedenza). A tal proposito, è indicativo che il luogo comune più diffuso sul readymade, anche tra gli specialisti dell’arte, è di limitarlo ad una provocazione nei confronti del mercato dell’arte; poca cosa davvero, ma che tocca un punto paticolarmente sensibile, e così: la lingua batte dove il dente duole… 
L’arte, per andare da qualche altra parte che ancora non sa e non può sapere, ha dovuto  prima criticare e negare sé stessa mostrando il suo autentico volto attuale. Ha potuto farlo sottraendo il proprio oggetto tradizionale dall’asse verticale del paradigma (metafora, es.: somiglianza con la testa di un toro) per scegliere quello orizzontale (non sentimentale e non arbitrario) del sintagma (classificazione delle cose secondo la vicinanza delle elencazioni); ma su quest’asse ha trovato il catalogo del magazzino dei prodotti, ha trovato la merce e l’indifferenza del lavoro umano nel produrla. Così, il readymade come opera d’arte è anche la merce come opera d’arte e l’opera d’arte come merce; e in questa transitività circolare gli enigmi dell’oggetto artistico attingono da quelli della merce. Ma a questo punto noi abbiamo già la leva per penetrare e dissolvere gli arcani dell’arte attraverso quelli della merce: la prima sezione del libro primo del Capitale. ≠

( l’arte come coazione a rispecchiare e come sensore )

Dunque: cosa vuole l’arte? Se vuole finire per confessare la reale natura della propria epoca attraverso il suo particolare mostrarsi alla vista, sembrerebbe che con il readymade l’arte visuale abbia raccolto e fornito un bel po’ di dati e informazioni circa i caratteri reali dell’epoca del capitalismo stramaturo.
Cosa poi l’uomo debba farsene e se ne farà di certe rappresentazioni delle cose attuali non riguarda più l’arte ma la forma futura di società, che magari classificherà, misurerà e valuterà queste vestigia del passato in modo diverso da come lo fa attualmente; e non certo disturbata, nell’osservazione dell’oggetto, dalla devozione feticistica e del valore di scambio (che non sussisteranno), né tantomeno dalla presenza del readymade, dato che la merce che lo ha generato sarà risucchiata nella mitologia del capitalismo, del quale non sarà più pietra di scandalo ma di paragone. Probabilmente i prodotti dell’arte passata verranno raccolti, classificati, misurati e valutati (singolarmente e globalmente) sulla base della quantità dei dati e delle informazioni che questi particolari fossili d’affezione conservano del cammino millenario della specie umana…
≠ > leggi N.d.R. 7

( transizione di fase .  transizione di stato )

L’impossibilità per l’arte di tornare indietro (resa visibile nel Museo, che raccogliendo il “già fatto in arte” lo interdice al futuro) e l’esaurirsi delle spinte per andare avanti, adesso pone all’arte ed ai suoi prodotti il cruccio di una transizione (di uno stallo, direbbe Duchamp).
Se con il readymade l’arte mostra il risultato ultimo delle separazioni delle sue classiche componenti unitarie, è anche possibile che l’arte abbia raggiunto una fase di transizione e non esprima neppure più le sue proprie necessità ma, al passo del bolscevismo, quelle di un cambiamento sociale.
Ci vorrà poi un primo girone di distruzione mondiale di uomini e cose per allargare il fronte dell’attacco frontale (a volte isterico) alle convenzioni dell’arte da parte delle prime avanguardie artistiche, ed un secondo girone per la presa decostruttiva alle sue istituzioni da parte delle neoavanguardie. Dopo di che arriva giusto il riassuntivo programma postmodernista di conciliare l’arte con la vita – da considerare analogo al programma storico dell’attuale transizione di stato di trasformare il tempo di lavoro in tempo di vita.
Come si può dopotutto parlare di un destino fallimentare delle avanguardie?
Se l’arte e l’opera d’arte possono considerarsi essenzialmente come dei sensori particolari non sono però degli attuatori generali; possono portare a compimento cioè solo programmi fatti della loro stessa materia, il resto è solo frutto dell’insolenza dei militi.
Di più e diversamente l’arte non ha potuto e non può fare: a chi spetta la mossa successiva?...


( futuro )
…. appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico. (Marx-Engels, L'ideologia tedesca)
Se sulla base di questo brano dovessi indicare in chi, tra Picasso e Duchamp, è possibile scorgere i caratteri anticipatori dell’uomo comunistico descritto da Marx ed Engels, mi troverei subito costretto ad escludere Picasso, che tutta la vita non ha fatto altro che l’artista di professione; mentre l’altro ha sempre rifiutato di dedicare la propria vita ad un’unica attività e, pur facendone diverse, ha sempre negato di averle mai fatte per se stesse; per chi, dunque?... per la vita, forse?
[ Devo qui precisare che riconosco l’opera svolta da Picasso fondamentale per l’arte moderna e non riducibile ai momenti e ai giudizi spontaneamente derivati da una ricognizione focalizzata sul readymade e Duchamp, e non sulla pittura e Picasso – da svolgere con diversa strumentazione ].
Dato che noi non bruciamo libri, non bruciamo neppure opere d’arte; e, così come abbiamo detto “né Truman, né Stalin”, “né fascismo, né antifascismo” ecc., potrei anche dire: “né Duchamp, né Picasso” per prenderci proprio tutto ciò che l’industria dell’uomo ha prodotto fin dai primordi lungo il suo corso storico, includendovi ovviamente anche le singole opere d’arte e tutte le problematicità che il loro processo evolutivo ha dovuto fin qui presentare agli uomini. Dopo di che ognuno potrà anche dipingere, così come gli vien voglia, e anche dipingere come Picasso... senza diventare né Picasso, né pittore. ≠

( la veridica storia del ready-made )

Altro dovrei aggiungere riguardo un ipotizzabile ripristino dello svolgersi veridico dei fatti che hanno determinato la metamorfosi di una cosa qualsiasi in opera d’arte.
Ma preferisco di nò. ≠

( si interrompe qui il flusso di queste  annotazioni )

Una provvidenziale interferenza interrompe il flusso di queste annotazioni altrimenti inarrestabili.
E’ difatti a questo punto che qualcuno - certamente al corrente delle mie difficoltà di venirne a capo - ha pensato bene di fornirmi un poco di conforto tramite uno scritto che Apollinaire aveva dedicato al Duchamp cubista, prima cioè di ogni readymade.
[…] Per allontanare dalla sua arte tutte le percezioni che potrebbero diventar nozioni, Duchamp scrive sul suo quadro il titolo che gli conviene. Così scompare nella sua arte la letteratura, di cui pochi pittori han saputo fare a meno, ma non la poesia. Più tardi si serve di forme e colori, non per rendere le apparenze, ma per penetrare la natura stessa di quelle forme e di quei colori che scoraggiano i pittori al punto che vorrebbero farne a meno, e lo tentano infatti ogni volta ch’è possibile... In questo senso egli va il più lontano possibile e non teme d’incorrere nel rimprovero di fare della pittura esoterica o addirittura occulta. […] Un’arte che avesse per scopo di sprigionare dalla natura non generalizzazioni intellettuali, ma forme e colori collettivi la cui percezione non è ancora diventata nozione, sarebbe concepibilissima, e pare che un pittore come Marcel Duchamp stia realizzandola. […] Quest’arte può produrre opere di tal forza di cui non si ha idea. Può darsi ch’essa compia una missione sociale. Come fu portata in giro un’opera di Cimabue, il nostro secolo ha visto condotto in trionfo alle “Arti e Mestieri” l’aeroplano di Blériot, carico d’umanità, di sforzi millenari, di arte necessaria. Sarà forse riservato a un artista scevro di preoccupazioni estetiche ma ricco di energia, come Marcel Duchamp, di riconciliare l’Arte col Popolo. [29] 
In questa descrizione degli esordi, tutta però protesa nel futuro, è sembrato anche a me di trovare un incoraggiante rincalzo da collocarsi indifferentemente all’inizio o alla fine di queste illuminations esthétiques.
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[29] . Guillaume Apollinaire, I pittori cubisti, ed. Il Balcone, Milano 1945, p. 89 seg. Leggi in nømade 7 l'intero paragrafo dedicato a Marcel Duchamp. - Il manoscritto originale ha per titolo “Méditations esthétiques - Iere sèrie: Les Peintres Nouveaux”, per data il 1912, ma la stampa è dell’anno seguente.
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Carcere di Soletude, lunedì 29 aprile 2019
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