L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI

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Tracce di Lavoro Comune . 2017
arteideologia raccolta supplementi
made n.16 Ottobre 2018
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Elementi e complementi . (appunti I.2)

Marx, Engels e l'arte 

Nella considerazione marxista anche letteratura poesia e scienza sono forme superiori e differenziate degli strumenti produttivi e nascono per rispondere alla medesima esigenza della vita mediata ed immediata della società. E tuttavia…
Marx ed Engels non ci hanno fatto il piacere e il favore di lasciarci uno specifico studio sull'Arte; e nessuno ha composto una antologia dei loro scritti sull'Arte o delle citazioni adatte a questo scopo [1]; ma con un po' di buona volontà si può anche fare questo tipo di lavoro.
Consideriamo anche che quando hanno affrontato questo ambito della produzione, sia Marx che Engels si sono occupati quasi prevalentemente  di letteratura, e hanno trovato in seguito molti studiosi che su quei loro scarsi materiali hanno svolto le proprie riflessioni e prodotto molti lavori variamente valutabili.
Forse non è un caso che Marx ed Engels  siano mancati a questo appuntamento con l’Estetica, o piuttosto con la critica dell’estetica….
O forse non sono mancati affatto, e hanno lavorato alla definizione delle condizioni stesse (basi materiali) sulle quali questa critica si dovrebbe ergere.[2]
Così, ad esempio, non possiamo immaginare il particolare filone novecentesco della storia sociale dell’arte – Hauser, Clark ecc. – senza le premesse del lavoro globale di Marx, Engels, Plechanov e di altri marxisti più o meno conseguenti…
Le nozioni di arte, esteticità, sono cioè contenute, racchiuse e sparse in tutti i loro scritti; e, al contempo, non possiamo non riconoscere in tali scritti la loro propria componente, diciamo, “artistica”.[3]
Prendete una pagina del 18 Brumaio, o, tanto per non allontanarci troppo, “La condizione della classe operaia in Inghilterra” e vedrete che qui la scrittura raggiunge e supera di slancio lo statuto di opera d’arte - per come finora comunemente è intesa.
C’è in essi solida struttura narrativa e tutta la poesia e una umanità capace di soddisfare chi può intenderla, e far godere la sensibilità “estetica” del lettore né più, né meno di un intero canto dell’Odissea o di un breve componimento di Ungaretti, così come della lettura del “dialogo” di Galilei - trarne un godimento “estetico” non è immancabile, solo possibile, ma questo vale per ogni altra e qualsiasi opera d’arte, proprio come per ogni altra cosa…
Mhering nella sua biografia di Marx ce lo descrive indulgente nei confronti degli artisti (indulgente non certo su questioni teoriche e di partito), come ad esempio verso il poeta Ferdinand Freiligrath… Sappiamo che anche Bordiga lo era nei loro confronti (ad esempio sembra trattasse con una certa simpatia Gramsci)…
Ci sarebbe da chiedersi se dietro quella che con leggerezza abbiamo definito “indulgenza” non agisca un sentire di toccare con l’arte un punto, diciamo, sensibile della produzione umana di sempre (anche nel senso di una produzione libera dal bisogno - naturalmente al netto degli individui)…
Ma se poi attingiamo dalle parole che Bordiga ha pronunciato nella ricordata riunione di Firenze, ecco che quella che abbiamo appena definito “indulgenza” nei confronti dell’arte e degli artisti, sembra piuttosto conseguenza della comprensione di un complesso strutturarsi delle dinamiche sociali e storiche che si è fatta intima e partecipe del cammino umano della rivoluzione.[4] 

… Svolgemmo la teoria che la spiegazione non era quella addotta, e cioè che la intuizione facesse più presto della intelligenza. La nostra teoria è che le grandi opere artistiche sono la traduzione di linguaggi emanati in epoche illuminanti, che sono epoche di rivoluzione; mentre la trasmissione dei risultati scientifici è tipica delle epoche di sonnecchiamento dell'umanità. Sarebbe il famoso: Quandoque bonus dormitat Homerus (talvolta anche il buon Omero s'addormenta). Omero sarebbe sorto, secondo la nostra spiegazione, in un'epoca rivoluzionaria. E così tutti i grandi poeti. Dante è sorto alla nascita del tempo moderno per il contesto italiano, e Shakespeare per quello inglese. E le loro opere sono rimaste immortali perché nascevano veramente in una delle epoche sviluppanti dell'umanità (quelle epoche che altri chiamano "momenti progressivi"), in quei rari momenti in cui l'umanità scatta verso nuove conquiste, mentre la scienza dipende troppo dalla tecnologia materiale. La tecnologia dipende dai rapporti delle forme di produzione. E sulla tecnologia influisce in maniera negativa, come sul suo sviluppo e sul suo rinnovamento, la conservazione delle forme di proprietà e delle forme di produzione, come delle maniere di organizzazione della società e dello Stato. Quindi viene esercitata una pressione antisviluppante, antiprogressiva; e questa stessa pressione è esercitata sulla cosiddetta scienza positiva. Ecco perché, in genere, l'arte è rivoluzionaria e la scienza è controrivoluzionaria. Ecco perché, in genere, la cultura è conformista, reazionaria, asservita alla classe dominante… [5]

Marx e lo stile dei greci

Tra parecchi commentatori di Marx circola la diceria che egli prediligeva su tutto l’arte dell’antica Grecia, derivandola da alcune famose pagine tratte da suoi studi economici (Elementi, Grundrisse, Introduzione, ecc.).
Sembra proprio che questa convinzione se la passino di mano in mano come una palla, magari solo per fare in modo di aggiustarsi le cose in questi termini: 

Tenuto conto della loro fede nel progresso, i marxisti che si interessano d’arte dovrebbero, almeno in teoria, incoraggiare l’espressione di nuovi contenuti, oltre che sfruttare le tecniche e i mezzi più avanzati. Sorge però subito la questione se l’arte, la politica, la giurisprudenza, la scienza, la filosofia […] progrediscano uniformemente e simultaneamente sulla via della società senza classi. Qui le cose si complicano, a causa dell’educazione e delle predilezioni dello stesso Marx... che (fin da quando era studente universitario) era pervenuto alla conclusione, in seguito mai smentita, che l’arte greca è stata finora la più grande e addirittura, come egli stesso disse, “sotto un certo aspetto una norma e un modello inarrivabili”.[6]

In verità tali questioni non si sarebbero poste se solo il nostro storico fosse andato a leggere personalmente alla fonte invece di attingere da una citazione isolata il suo convincimento. Si sarebbe accorto che la risposta è già nell’esordio: “per l’arte è noto che determinati periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società, né quindi con la base materiale, con l’ossatura per così dire della sua organizzazione” [7].
Una supposta progressione uniforme e simultanea dell’arte è dunque solo un prodotto dell’immaginazione dell’illustre storico dell’arte.
Liquidata questa faccenda assieme al materialismo grossolano che l’ha ispirata, nelle parole del nostro professore rimarrebbe l’insinuazione di un sentire nostalgico e antiprogressista di Marx, se non fosse che, sempre nel brano citato Marx scrive: 

“Prendiamo, ad esempio, il rapporto dell’arte greca … Ogni mitologia vince, domina e plasma le forze della natura nell’immaginazione e mediate l’immaginazione: essa scompare quindi allorché si giunge al dominio effettivo su quelle forze.”

Attenzione; Marx prende l’arte greca (o anche Shakespeare) “ad esempio” … proprio per dire che “certe” particolari manifestazioni dell’arte (generi, come l’epica, ad es.) sono possibili solo in determinati stadi dell’evoluzione artistica, superati i quali (i suoi presupposti) non è più possibile produrli nella loro forma classica [8]; ossia, non prende l’arte greca per (ri)proporla come modello “esemplare”.
Qui i greci non rappresentano altro che un esempio per un ragionamento da applicare a qualunque altra produzione artistica di una qualsivoglia epoca e civiltà passata; e, concessa pure l’ammirazione di Marx per l’arte classica (chi non la prova?) null’altro viene qui espresso oltre l’idea, non smentibile, che essa rimane un modello inarrivabile perché irripetibili sono le condizioni che l’hanno espressa.
Tuttavia, così come Marx ritiene impossibile l’Iliade nell’epoca della macchina tipografica, doveva conseguentemente ritenere impossibile la pittura di Apelle nell’epoca della macchina fotografica. E difatti non ci risulta che si sia mai messo in posa per un pittore; invece lo ha fatto spesso per fotografi anonimi.

Solo il tramestio grossolano tra certe faccende può tirar fuori dalla pagina di Marx una vena di rimpianto per un’epoca del passato da indicare come un programma artistico per il presente – e sia pure la Grecia di Omero, di Prassitele o di Epicuro – figuriamoci poi per il futuro.
Piuttosto che tali ovvietà, Marx pone una questione più sottile e intricata:

Ma la difficoltà non sta nell'intendere che l'arte e l'epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili.
Proprio perché senza i loro determinati presupposti certe manifestazioni artistiche non sono più possibili, si sono potute trafiggere come coleotteri al tavolo di dissezione e studiarle per scoprirne l’anatomia, fissarne le norme e tenerle a modello delle loro epoca - che magari può muovere, tra l’altro, anche l’illusione di poterle far rivivere, intanto che si pone come paradigma di quell’arte.
Ma questo non può assolutamente fraintendersi come una prescrizione cui attenersi; come sistemare altrimenti il fatto che “Un uomo non può tornare fanciullo o altrimenti diviene puerile”? Difatti, se tuttavia certe forme tornassero o rinascessero dopo la loro morte naturale [9], si mostrerebbero nella loro natura fittizia, parodistica, farsesca – dirà Marx ne Il diciotto Brumaio – o anche grottesca e mostruosa, aveva commentato Mary Shelley già nel secondo decennio dell’ottocento, durante la prima fioritura dell’industrialismo moderno.[10]
Diventa perfettamente intuibile — nonostante la confessata difficoltà a spiegarlo — come solo nella loro forma originaria certe opere e certi generi artistici continuano a produrre in noi un godimento estetico.
Qui Marx pone un altro mero “esempio”, che svolge del tutto naturalmente nel senso del paragone tra l’arco della vita individuale e quello delle epoche storiche; è però l’ingenuità della fanciullezza (individuale o storica) ad esercitare il suo fascino sull’uomo adulto, che se ne compiace e vorrebbe rivivere per riprodurne le verità ad un livello più alto.[11]
La pagina si chiude ripetendo ancora una volta, se ce ne era bisogno, che quelle forme “non possono più ritornare”.
In verità qui Marx invita più volte a rivolgersi ad una sorta di epos a lui contemporaneo, che ha dissolto, anzi: sepolto quello classico greco – di cui tuttavia rimangono le spoglie e le vestigia.
E quali migliori illustrazioni visive potrebbero accompagnare il brano di Marx che abbiamo citato, se non le cinquanta litografie della Histoire Ancienne che Honoré Daumier - praticamente un suo contemporaneo - aveva pubblicato sul Charivari dal 1841 al 1843?
Nell’arte greca è invece assente qualcosa di cui probabilmente sia Engels che Marx avrebbero sentito la mancanza, ed è una componente specificatamente moderna: l’ironia – che non è la satira…[12]
E d’ironia è intessuta la loro produzione teorica, come pure lo sono i disegni che  spesso Engels amava inserire nelle lettere che scriveva.[13]

Per non parlare poi del romanzo giovanile di Marx, Scorpion und Felix, definito da lui stesso “umoristico”, e che, per quanto sconfessato nella lettera al padre del novembre 1837 come una prova sforzata e deludente, non autorizza nessuno a trasformarla in ripudio di questa particolare forma espressiva che vivificherà l’intera sua prosa scientifica.[14] >

> Siamo certi che come noi anche lo scrittore e critico statunitense Edmund Wilson si sia divertito parecchio a leggere Il Capitale. Ecco difatti cosa ne dice:
Nessuno ha mai sentito tanto acutamente l’infinita capacità della natura umana di rimanere fredda e dimentica di fronte alle sofferenze che infliggiamo agli altri quando possiamo trarre un beneficio personale da quelle sofferenze. Nel trattare questo tema, Karl Marx, si rivelò uno dei grandi maestri della satira. Marx è senza dubbio il più grande ironista del mondo dopo Swift, col quale ha molti lati in comune. Confrontate la logica della “Modesta proposta” di Swift, per rimediare alla miseria dell’Irlanda inducendo gli affamati a mangiare l’eccedenza della propria prole, con l’argomento portato da Marx contro i filosofi borghesi in difesa del delitto (Nel IV volume di Das Kapital): il delinquente, dice Marx, produce delitti come “il filosofo produce idee, il poeta versi, il professore i manuali; la delinquenza è utile alla società poiché contribuisce a eliminare la popolazione superflua e nello stesso tempo la necessità dà lavoro a molti onesti cittadini”. In comune con Swift, ha anche la capacità di esprimere la poesia del danaro. C’è in Swift una specie di gusto intellettuale per il computo e un’attrazione quasi sensuale per il danaro. Nelle Lettere di un tessitore, per esempio, ci sembra di vedere le monete, di udirne il tintinnìo, di maneggiarle. Ma in Marx, l’idea del danaro che porta a qualcosa di più altamente filosofico. Abbiamo visto come, a proposito delle leggi sui furti di legna, egli avesse rappresentato gli alberi delle tenute private come esseri superiori cui i contadini dovevano essere sacrificati. Ora (andando più lontano da sir Thomas More, che a un precedente stadio dello sviluppo capitalistico, al tempo in cui le grandi tenute venivano spopolate e trasformate in pascolo per le pecore, aveva detto che le pecore divoravano il popolo), Marx vi presenta il quadro del mondo in cui le merci dominano gli esseri umani… In realtà il metodo di Marx ha una sua bellezza: ci consente, come diceva Mehring, di giungere a distinzioni infinitamente sottili… Ma l’aspetto principale di questi capitoli astratti che si alternano con quelli storici è, almeno nel primo volume, l’ironia… Nel competere coi professori di scienze economiche, Marx ha scritto qualcosa che si avvicina ad una parodia. E quando abbiamo letto Das Kapital le opere convenzionali degli economisti non ci appaiono più le stesse: riusciamo sempre a vedere attraverso i loro argomenti e le loro cifre la realtà crude dei rapporti umani che tali opere si propongono di mascherare. [15]
Non male per un non comunista.
Serve a qualcosa, per chiudere questa faccenda coi greci, ricordare infine che Marx intendeva scrivere un libro su Balzac e non su Luciano di Samosata? 

Marx, Engels e l'arte moderna

 Ed è con Balzac che la pittura più compiuta del XX secolo può essersi insinuata anticipatamente nel Mondo dei due amici, grazie al personaggio balzachiano del pittore Frenhofer.
Il 25 febbraio 1867, Engels invia a Marx questa brevissima nota: 

In questo momento posso scriverti solo poche righe, perché è qui l’agente del landlord, ed io di fronte a lui debbo recitare la parte di Mercadet nella commedia di Balzac. A proposito di Balzac, ti consiglio di leggere il suo Le chef d’oeuvre inconnuMelmoth. Sono due piccoli capolavori, pieni di deliziosa ironia. 

Il capolavoro sconosciuto è un breve racconto di Balzac, apparso la prima volta in due puntate sulla rivista L’Artiste del 1831, e inserito poi nella raccolta dei suoi Romans et contes philosophiques; in seguito verrà modificato e quindi pubblicato nella versione definitiva solo nel 1847 nel volume Le provincial à Paris con il titolo di Gillette.
Eccone la sinossi:

Alla fine del 1612, il giovane Nicolas Poussin (seicentesco pittore francese saldamente classicista) si reca all'abitazione parigina del pittore François Porbus. Qui conosce un misterioso vecchio di nome Frenhofer, un borghese grande esperto di arte che in passato ha aiutato economicamente il pittore Mabuse, ottenendo in cambio di diventare il suo unico allievo. Dal maestro, Frenhofer ha imparato tutti i segreti della pittura, e dopo averli invitati a casa sua rivela a Poussin e Porbus di lavorare da sette anni a un dipinto che non esita a definire un capolavoro, ma che si rifiuta di mostrare loro, nascondendolo gelosamente. Tre mesi dopo, Porbus va a fare visita a Frenhofer, trovandolo in uno stato di grande scoraggiamento. Il vecchio non è infatti completamente soddisfatto del suo lavoro, e si ripromette di recarsi in Oriente per cercare nuovi modelli a cui ispirarsi. E’ allora che Porbus propone di usare come modella la giovane amante di Poussin; e mentre l'anziano pittore si ostina a rifiutare sdegnosamente l'offerta i due fanno ingresso nello studio. Tuttavia, dopo varie pose, di fronte agli sguardi intensi che Frenhofer posa su Gillette, Poussin ha un moto di gelosia e richiama la ragazza per riportarla alla locanda.
Vinte infine le ritrosie, Frenhofer alla fine acconsente a mostrare loro il quadro a cui sta lavorando da tanti anni. Il dipinto desta però perplessità nei due artisti, che non riescono a riconoscere niente della figura di donna descritta dal vecchio, se non un piede di autentica bellezza. Accortosi che questi non comprendono la sua arte, frutto di continue ricerche e riflessioni, Frenhofer cade in una profonda sconsolazione e scaccia i suoi ospiti. Morirà nella notte, dopo aver bruciato tutti i suoi dipinti.

Ora a noi non interessa fare di questo racconto l’oggetto di particolari analisi; ci importa solo il fatto che Balzac abbia fatto balenare davanti agli occhi - di Marx, Engels, e vostri - la possibilità di un’opera di pittura che Poussin descrive come «un confuso ammasso di colori, delimitati da un’infinità di linee strane che formano una muraglia di pittura»: un’opera astratta, si direbbe.[16]
Il racconto è ambientato nella prima metà del 600, ma le parole che Balzac fa dire a Poussin, rappresentante del classicismo seicentesco, per descrivere il folle Frenhofer, sembrano anche descrivere anticipatamente la condizione del pittore e della pittura nell’epoca della piena modernità: “Ha meditato a fondo sui colori, sulla verità assoluta della linea; ma a forza di indagare è arrivato al punto di dubitare dell’oggetto stesso delle sue ricerche”.[17]
Marx ed Engel hanno potuto già scorgere, grazie a Balzac, la risoluzione e la dissoluzione della pittura mezzo secolo prima di Kandinskij e Malevic - … e Balzac is an honourable man… [18]
Ma in fatto di intravedere sprazzi di futuro ci sarebbe di più se si considera che ad indagare a fondo i colori e la linea ancora viventi Marx ed Engels — intanto ci pensavano William Morris e sua figlia May, che furono tra i primi socialisti inglesi a lavorare al loro fianco per far attecchire il socialismo in Inghilterra.[19]
Morris con i suoi scritti teorici e la produzione Art and Craft di quegli anni si è guadagnato dei meriti sostanziali nella fondazione, formazione e "riorientamento" dell’arte moderna, poiché la sua linea decorativa procederà ben oltre: come frusta nell’Art Nouveau, o come sgocciolatura continua in Pollock...[20]
Non ci saremo attardati in tali faccende se in questa stimata Storia dell’arte di sinistra non avessimo letto il seguente passaggio - che la dice lunga sulla capacità di certi professori di comprendere l’arte e la sinistra, o di non comprenderle entrambe.

L’ammirazione che Marx nutriva per l’arte dei greci si ricollegava a quella per la democrazia greca, che egli condivideva con i maggiori esponenti dell’illuminismo, da cui in fondo l’aveva ripresa. […] Anche se Marx era senza dubbio convinto che lo spirito comunitario della democrazia greca giustificasse la sua tesi che vedeva nell’arte della Grecia antica “sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili”, egli in tal modo veniva meno, in realtà, a quella fede nel progresso che caratterizzava tanta parte della sua filosofia. E così facendo – non diversamente da Hegel – rifletteva almeno parzialmente l’influsso subíto in gioventù dalla moda artistica predominante… [21]

In verità quello che piuttosto risulta qui esser venuto meno è l’autonoma conoscenza dell’oggetto di cui discute e con ciò la reputazione stessa del pensiero borghese, che non ha più nulla da perdere ma neppure più nulla da guadagnare dalla propria prolungata agonia.[22]

A conclusione di questa parte, un’interesse ben diverso possiamo trovare ancora una volta dalla lettura della citata introduzione al romanzo giovanile di Marx: 

Questo singolare libretto, ogni volta che è stato pubblicato, ha messo in imbarazzo i suoi editori, che hanno cercato di cautelarsi con gli acquirenti sbandierando sin dalla copertina che — nonostante tutte le apparenze — le poche pagine del volume contengono l’«edizione integrale» del testo di Marx. Perché tale premura? Basta sfogliare il romanzo e ci si rende immediatamente conto di quale sia la difficoltà che si intende aggirare con tale precisazione. Scorpione e Felice comincia dal capitolo X del primo (a dire il vero) unico libro, per giunta con un esplicito riferimento a quanto avvenuto nel capitolo precedente [inesistente]; si passa poi al dodicesimo… Manca qualcosa, pensa subito il lettore: il testo è tagliato, o per lo meno incompleto. Naturalmente, poiché Marx non ha mai dato alle stampe il suo libro, niente impedisce di credere che almeno una parte di questi buchi sarebbero stati riempiti, ma a lettura ultimata l’impressione è piuttosto che anche queste lacune (o almeno un certo numero di esse) facessero parte sin dall’inizio del piano di Scorpione e Felice. In altre parole siamo alle prese con un testo deliberatamente stravagante: una storia che non ha un vero inizio e che non conduce a nessuna conclusione, un libro ossessivamente digressivo, in cui — capitolo dopo capitolo — il narratore moltiplica i finti indizi e coltiva le nostre aspettative solo per meglio deluderle in un secondo momento. Un romanzo pensato deliberatamente per non approdare da nessuna parte ma per perdersi in una serie virtualmente infinita di chiose, correzioni ed esemplificazioni che germogliano ad ogni pagina sulla esilissima trama frenando sul nascere qualsiasi svolgimento narrativo degno di questo nome con una discussione sui presunti benefici del principio del maggiorascato da poco reintrodotta dal governo prussiano, una parodia dell’empirismo di Hume e un lungo excursus filologico sulla possibili etimologia (tutte assurde) del nome di uno dei personaggi, il sarto Merten…
Gli acidi dell’ironia di Marx si rivolgono anzitutto contro il romanzo stesso. Il libro sembra procedere, nuovi personaggi entrano in scena ma, per quanto vada avanti, il lettore non riesce a trovare un solo punto di appoggio sicuro. Al contrario, più i capitoli si accumulano (con i consueti salti), più diventa difficile seguire gli interventi capricciosi del narratore, che si diverte a portarci fuori strada ogni volta che crediamo di avere afferrato finalmente il bandolo della matassa e di intravedere tra le chiose e le postille un principio di trama. Niente da fare. A seconda del suo gusto e del suo umore, il lettore detesterà allora Scorpione e Felice — o invece, nonostante tutte le stonature, gli riconoscerà il merito di aver portato alle estreme conseguenze la sua critica di tutte le convenzioni (narrative e non) e di avergli trasmesso un singolare sentimento di irrealtà. In ogni caso, quale che sia il suo verdetto finale verso l’umorismo di Scorpione e Felice, dovrà riconoscere di avere a che fare con un Marx romanziere che si colloca esattamente agli antipodi del modello di letteratura piattamente mimetica che siamo portati ad associare al così detto realismo socialista.
Queste parole di uno storico della letteratura che non sembra allevato alla catechistica influenza dei partiti formali, incoraggiano la nostra convinzione che tanto nella Lettera al padre che in Skorpion und Felix c’è più sostanza dottrinale ed estetica di quanto si è stati finora disposti a trovarvi.

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[1] - Nella sua monumentale Storia della letteratura tedesca Mittner ci informa in una nota che “la raccolta dei testi sulla teoria letteraria [di Marx ed Engels] fu iniziata intorno al 1930. Cfr. Marx und Engels, Über Kunst und Literatur, a cura di M. Lifschitz, Berlin 1948” [Ladislao Mittner, Op. cit., tomo 1, Dal Biedermeier  al fine secolo (1820-1890), ed. Einaudi, Torino 1971, pag. 402]. I testi di questa raccolta sono riportati in una edizione italiana curata da Carlo Salinari, “Scritti sull’arte”, Universale Laterza, 1967. In Italia questa edizione è stata preceduta da una del 1954 curata e prefatta da Valentino Gerratana (collezione Univerale Economica, Milano 1954); una terza è Marx, Arte e lavoro creativo (scritti di estetica), con l’introduzione e la cura di Giuseppe Prestipino, ed. Newton Compton, Roma 1976. Di un’altra, uscita nel 2012 per le edizioni Pgreco, non si conosce il curatore e l’estensore delle note a commento. In tutti i casi elencati, sarebbe interessante scorrere e confrontare i titoli dati dai curatori alle parti sotto le quali ogni volume raggruppa i brani dei testi antologizzati.
[2] - Ad esempio, dalla frase di Marx per cui la storia si ripete sempre due volte (la prima volta come tragedia, la seconda come farsa)… e poi tutto il seguito sulle virtù dei greci e romani ecc…. E’ come l’apertura del programma artistico dall’ottocento in poi (tutto quello che è avvenuto dopo potrebbe essere messo all’insegna di queste pagine…. Rottura dei limiti: confluenza della satira nell’arte moderna: Daumier, ecc…. e poi eclettismo stilistico, citazionismo (autoreferenzialismo), tautologia, disfacimento, dissolvimento e sparizione dell’oggetto artistico… (stiamo forse parlando della morte del capitale? della proprietà privata? dello stato? dell’azienda?.... o solamente della (hegeliana?) morte dell’arte? Forse, invece che di morte, qualche critico (Hal Foster?) preferisce non considerare la pittura una pratica storicamente superata ma solo una di quelle che subisce oggi, al pari di altri media,  un processo di revisione e riappropriazione permanente che tende a mostrare una sua nuova natura eterogenea, ibridata con altri campi di formazione dell’immagine (fotografia, cinema, televisione, architettura e così via)… (subisce cioè lo stesso processo di semplificazione e complessificazione a cui la tecnologia sottopone ogni altro tipo di informazione…) 
[3]. D’altronde il Marx diciottenne scrive al padre dicendo di aver “bruciato ogni poesia e ogni abbozzo di novelle”, aggiungendo subito “Nell’illusione di non poter continuare in ciò, di cui non ha finora, per la verità, fornito ancora alcuna prova contraria”; ma in precedenza gli aveva confessato: “Eppure queste ultime poesie sono le uniche in cui mi sia balenato di fronte improvvisamente come per un colpo di bacchetta magica — oh! il colpo fu al principio tale da sbalordire — il regno della vera poesia come un lontano palazzo di fate, e tutte le mie creazioni si dissolsero nel nulla”… E nulla vieta di pensare che il Marx adulto abbia praticamente risolto arte e poesia nell’unificazione della sua produzione teorica con il suo essere e agire comunista… (è stato di questa natura il suo risolutivo “colpo di bacchetta magica”?)…
[4] - da Marxismo e conoscenza umana, in Prometeo, n.1 1950: Dalla dottrina dei rapporti tra l’uomo-specie e la natura amica e nemica, noi non espelliamo l’Arte ed i suoi fastigi con un calcio nel deretano. Noi diciamo costruibile una storia del lavoro, della tecnica e della produzione, sulle cui solide fondamenta si reggono, e una storia della scienza applicata e teoretica, e una storia dell’Arte, i cui prodotti sono inesplicabili se non si intende quel duro cammino ad aprire il quale tutti i viventi - e tutti i giorni - contribuirono. " Ergai kai emèrai! " (Opere e Giorni). L’arte degli uomini espresse non qual fosse la potenza del Genio, ma quale grado avesse raggiunta quella che Marx chiamò la potenza di specie.”
[5] - C’è qui una importante distinzione terminologica tra Arte e Cultura; la prima rivoluzionaria, la seconda conformista. Il problema si porrebbe nel formare il criterio che distingue l’una dall’altra. Sennonché la cultura deve passare nel setaccio delle istituzioni della classe dominante, l’arte soltanto in quello del tempo che lega gli uomini nell’arco millenario della loro storia...
[6] - Donald Drew Egbert, Arte e sinistra in Europa (1968), ed. Feltrinelli, Milano 1975, p. 106.
[7] - K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, p. 39, ed. la Nuova Italia, Firenze 1968.
[8] - Ovvero sì nella forma parodistica – come dirà nel Diciotto Brumaio.
[9] - Il nostro storico immagina pure di confondere il suo racconto tirandovi dentro il Classicismo, Mengs e Winckelmann e, vedremo, “l’ammirazione di Marx per la democrazia greca”.
[10] - Mary Shelley, Frankenstein (1818) “Dopo giorni e notti di incredibile lavoro e fatica, riuscii a scoprire la causa della generazione della vita; anzi, di più, divenni capace di animare la materia inerte.”
[11] - La "meraviglia" sorge forse dal paradosso dell’insorgere persistente di un bisogno sensibile pur sapendolo irrealizzabile?
[12] - Questa nostra illazione sui greci ha trovato un fortuito conforto in una nota nella citata Storia della letteratura tedesca, nella quale leggiamo: “La polemica anticlassica di Jean Paul s’inizia con la Geschichte der Vorrete zur zweiten Ausgabe des Fixlein (Storia dell’introduzione alla seconda edizione del Fixlein, 1796), in cui la caricatura di un sovrintendente alle belle arti è implicita condanna della scuola classica dell’arte per l’arte. La Vorkschule der Ästhetik (Avviamento alla studio dell’estetica, 1804) accetta almeno in parte i principi (ed anche il linguaggio) del romanticismo; di veramente nuovo non vi è che la giustificazione dell’umorismo eretto a «genere letterario» per eccellenza moderno; genere giudicato validissimo, anche se sconosciuto ai greci.” [L. Mittner, Op. cit. Dal Pietismo al Romanticismo, ediz. Einaudi, Torino 1964, pag. 645].
[13] - “Il movimento di avvicinamento-allontanamento dall’oggetto rende l’ironia affine alla conoscenza. Il paradosso dell’ironia, il contrasto tra condizionato e incondizionato che si consuma in essa, è analogo, infatti, al paradosso della conoscenza…” (Valentina Cisbani, Umorismo e sublime in Jean Paul Richter, ed. Nuova Cultura, Roma 2013, pag. 28) 
[14] - Nella lunga e interessante introduzione ad un’edizione del 2011 del romanzo umoristico di Marx, Gabriele Pedullà scrive che dal 1929 «cioè da quando la pubblicazione di Scorpione e Felice mise in imbarazzo più di un discepolo di Marx, è stato citato innumerevoli volte come prova di una rapida e definitiva conversione a una nuova poetica. Non ci vuole molto a comprendere per quali motivi un testo sperimentale come Scorpione e Felice potesse dare fastidio ai militanti e intellettuali socialisti e comunisti che si rifacevano al pensiero di Marx (sic!). Al posto del severo teorico della lotta di classe da queste pagine emergeva un ragazzo impertinente, ostile all’ipocrisia della provincia tedesca e al codice civile prussiano (e fin qui andava bene) ma incline a irridere con altrettanto gusto l’opera del grande Goethe e l’erudizione accademica: quasi un nichilista, deciso a non risparmiare per nulla e a nessuno il proprio umorismo. Un Marx - diciamolo pure - che tra i comunisti di quegli anni sarebbe potuto piacere soltanto ad André Breton e ai surrealisti. Era necessario dunque un ravvedimento, e proprio la lettera al padre sembrava fornire la prova che il “giovane” aveva messo “la testa a partito”, lasciando i panni del moquer e del goliarda per quelli del rivoluzionario consapevole della serietà della propria missione.
Tale lettura, fino a qualche anno fa sostanzialmente avallata da tutte le biografie marxiane, non regge all’analisi. La delusione per il proprio lavoro non implica un ripensamento sui propri modelli e men che mai una radicale abiura di una tradizione umoristica alla quale viceversa Marx sarebbe rimasto affezionato per tutta la vita.>
> Nella lettera al padre, infatti, non si dice che il progetto originario era sbagliato, né si contrappone una nuova poetica, realistica, alla lezione sterniana (come pure si è spesso scritto), perché il giovane Karl si limita soltanto a notare che il proprio tentativo di incamminarsi sulle orme di Sterne (ma anche di Heine e Diderot) si è risolto ancora una volta in un sonoro fallimento, senza che da questo [suo proprio] risultato si possa trarre alcuna conclusione sul valore di quegli autori. Un fallimento doloroso che magari si potrebbe risolvere nella formula “Volevo rifare Tristram Shandy,  e invece mi sono ritrovato a imitare Jean Paul!». [G. Pedullà, cit., pagg. XXXII seg.].
[15] - Edmund Wilson 1940, To The Finland Station; Fino alla stazione di Finlandia, Editoriale Opere Nuove, Roma 1960, pag 321 e seg.. – I ed. italiana, Rizzoli 1949. - (dalle ultime parole di Wilson, sviluppare che: ... l'arte (ma non solo) è un produrre modelli che riorientano...)
[16] - Al proposito, Gabriele Pedullà, ancora nella introduzione al romanzo di Marx, riferisce che proprio questa opera di Balzac ossessionava Marx “perché temeva di riconoscersi nella figura del pittore geniale che, a forza di ritoccare senza sosta un quadro alla ricerca della perfezione, finiva per creare soltanto una massa indistinta di colori” (cit. pag. XIII). Naturalmente noi oggi potremmo rassicurarlo: in entrambe i casi, pittorico e teorico, nella pittura contemporanea o nell’opera di Marx, l'indistinto c’e solo per i sensi dominati da paradigmi tradizionali in crisi irreversibile … e c’è piuttosto da rimpiangere che Marx non abbia avuto più anni ancora per “ritoccare senza sosta” anche quel capolavoro del Manifesto
[17] - Parole che ricordano – con esito invertito - quelle pronunciate da Frankenstein: “Dopo giorni e notti di incredibile lavoro e fatica, riuscii a scoprire la causa della generazione della vita; anzi, di più, divenni capace di animare la materia inerte.”
[18] - Nella sua meritevole Storia sociale dell’arte Arnold Hauser commenta: Questa è la differenza essenziale tra Balzac e Marx: il poeta della Comédie humaine giudica la lotta del proletariato esattamente come quella delle altre classi, una lotta cioè che mira a vantaggi e privilegi; Marx invece vi scorge l’inizio di un’era nuova e, nel suo trionfo, l’attuazione di una condizione ideale e definitiva. Prima di Marx, e in forma che Marx stesso giudicherà esemplare, Balzac scopre la natura ideologica del pensiero. «La virtù comincia con il benessere», dice nella Rabouilleuse, e nelle Illusions perdues Vautrin parla del «lusso dell’onestà», che ci si può permettere solo quando si disponga di posizione e censo adeguati. Già nel suo Essai sur la situation du parti royaliste (1832) Balzac indica come procede il formarsi dell’ideologia. «Le rivoluzioni si compiono – egli afferma – prima nelle cose e negli interessi, poi si estendono alle idee e infine si trasformano in principî». Il nesso che lega il pensiero all’esistenza materiale e la dialettica di vita e coscienza, egli li scopre già in Louis Lambert dove l’eroe, com’egli osserva, dopo lo spiritualismo della sua giovinezza, vede sempre più chiara la materialità del pensiero. Evidentemente non fu un caso se Balzac e Hegel riconobbero quasi a un tempo la struttura dialettica dei contenuti della coscienza. L’economia capitalistica e la moderna borghesia erano piene di contraddizioni e mettevano in luce il duplice condizionamento dello sviluppo storico più chiaramente delle civiltà precedenti. Le basi materiali della società borghese non solo già di per sé erano più trasparenti di quelle del feudalesimo, ma il nuovo ceto dirigente era assai meno preoccupato dell’antico di travestire ideologicamente le premesse economiche del suo potere. Del resto, la sua ideologia era ancora troppo recente, perché se ne potesse dimenticare l’origine. – Op. cit. II vol., ed. Einaudi, Torino 1964, pag. 281.
[19] - Nel 1883 Morris entrò a far parte della Social Democratic Federation e, nel 1884 fondò la Socialist League. Morris si trovò così a mediare tra i marxisti e gli anarchici socialisti, spaccatura che infine portò al fallimento della Socialist League. Questo lato della vita di Morris è ampiamente discusso nella biografia di E.P. Thompson William Morris. Romantic to Revolutionary.
[20] - Se qualche conforto per l’ironia ci è arrivato dalla storia della letteratura tedesca di Mittner (vedi nota 20), qualche altro continua a fornircene nel tomo seguente riguardo certe “anticipazioni” artistiche di carattere anche letterario di cui Marx ed Engels hanno sicuramente fatto esperienza diretta.   Così è stato per gli elzeviri di Georg Weerth pubblicati tra il 1848 e il 1849 sulla Neue Rheinische Zeitung, di cui leggiamo: «L’articolo stesso è spesso soltanto una notizia oggettiva con una breve glossa ben nascosta nella notizia medesima; talora non è che un avviso economico, genere di cui Weerth si dichiara innamorato fino alla follia, il solo genere letterario che sia degno di essere tramandato ai posteri. Alcuni articoli della rivista ufficiale berlinese, collocati senza commento accanto ad articoli di un giornale scandalistico parigino, bastano a mostrare la differenza tra lo spregiudicato libertinaggio untuoso dei predicatori di corte e quello dei più ghiotti pettegolezzi erotici…». In tali premature “sperimentazioni” editoriali non sembrano risuonare, anticipate di oltre un secolo, forme e modi espressivi Dada e pop-artistici? Elzevirista ufficiale della Neue Rheinische Zeitung di Colonia, Weerth era fin dal 1845 annoverato da Marx tra i suoi amici più fidati e risoluti, ed Engels lo considerava il primo e più notevole poeta del proletariato tedesco… E il Manifesto stesso sembra presentare - con la scelta del titolo spudorato con cui si rivolge alla pubblica opinione – un analogo tenere il polso anche alle espressività antiformali che sorgevano nel clima delle rivoluzioni del 1830 e 1848. – Per quanto lo teniamo in scarso conto, in queste ultime nostre annotazioni, abbiamo visto riconosciute alle opere di Marx ed Engels anche un ruolo e un valore letterario; ma mentre Mittner le assume solo per le idee, Wilson ne coglie la specificità artistica e letteraria.
[21] - D. D. Egbert, Arte e sinistra in Europa, cit., pag. 106 e 107. – Per quanto rabberciata, è chiaro che la bizzarra costruzione di quest’ultimo capitolo aveva di mira la conclusione - comunque risibile – di questo autore.
[22] - Qualche anno fa, un brillante archivista di sé stesso (novello Jean Paul, ricco però solo d’una erudizione ben amministrata che gli impedisce la capacità fantasiosa del tedesco) lamentandosi della mancanza di una analisi dello stile letterario del Manifesto si è deciso a farla lui, fornendoci piuttosto un’analisi della struttura retorico-argomentativa, dato che, afferma, «si tratta di un testo formidabile che sa alternare toni apocalittici e ironia, slogan efficaci e spiegazioni chiare e …a parte la capacità certamente poetica di inventare metafore memorabili, il Manifesto rimane un capolavoro di oratoria politica… — dovrebbe essere religiosamente analizzato ancora oggi nelle scuole per pubblicitari». [Umberto Eco, Sullo stile del Manifesto, in La filosofia e le sue storie . L’età contemporanea, a cura di U. Eco e R. Fedriga, ed. Laterza, Bari 2014]
Anche così ridotto a depliant pubblicitario, e proprio per questo, il Manifesto sembra accordarsi perfettamente (seppure ne avesse bisogno) con la nostra temeraria costruzione dei fatti intesa a vedere Marx ed Engels fare esperienza diretta di anticipazioni di futuro anche in arte. E che nel Manifesto possa vedersi null’altro che un sagace depliant (warholiano o beuyssiano) di un finale di partita (beckettiano) può anche accadere. Un'analisi dello stile letterario del Manifesto continua dunque a mancare, ma non ci manca, e nulla di sostanziale qui è manchevole, per la nostra rivoluzione.
IMMAGINI
I In alto - Attuale interno della Centrale Elettrica Montemartini a Roma.
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sopra: William Morris 1859: motivo della decorazione parietale interna della Casa Rossa, Bexleyheath Kent nel Kent, progettata da Philip Speakman Webb per la Morris & Co.

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