L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI

Henri Focillon . 1938
arteideologia raccolta supplementi
made n.20 Giugno 2023
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Elementi e complementi . (allegati II.2b)

VITA DELLE FORME
Le forme nel tempo

A questo punto delle nostre ricerche, vediamo le dottrine venire a conflitto e, più ancora, in ognuno di noi, sorgere movimenti contrari di pensiero. Qual è il posto della forma nel tempo, e come vi si comporta? In che misura è essa tempo, e in che misura non lo è? Da un lato, l’opera d'arte è intemporale: la sua attività, la sua dialettica s'esercitano innanzi tutto nello spazio. E, d'altro lato, essa ha il suo posto prima e dopo altre opere. La sua formazione non è istantanea: risulta da una serie di esperienze. Parlare della vita delle forme, evoca necessariamente l’idea di successione.
Ma l'idea di successione suppone concezioni diverse del tempo. Questo può essere interpretato volta a volta come una norma di misura e come un movimento, come una serie di immobilità e come una mobilità senz'arresto. La scienza storica risolve quest'antinomia con una sua certa struttura. L’inchiesta sul passato, che non ha per oggetto questa costruzione del tempo, non potrebbe fame a meno. Essa si sviluppa secondo una prospettiva, vale a dire entro certi confini, secondo un ordine di misure e di rapporti.
L’organizzazione del tempo per lo storico riposa, come la nostra stessa vita, sulla cronologia. Non basta sapere che i fatti si susseguono, poiché si susseguono a determinati intervalli. Ed anche questi intervalli non autorizzano soltanto una situazione, ma gia, sotto certe riserve, un'interpretazione. Il rapporto di due fatti nel tempo non è il medesimo secondo ch'essi sono più o meno lontani l'uno dall'altro. V'è qui qualcosa d'analogo ai rapporti degli oggetti nello spazio e sotto la luce, alla loro dimensione relativa, alla proiezione delle loro ombre. I punti di riferimento del tempo non hanno un puro valore numerico. Non sono le divisioni del metro, che punteggiano il vuoto d'uno spazio indifferente. Il giorno, il mese, l’anno, hanno un principio ed una fine variabili, ma reali. Ci offrono altrettante testimonianze dell'autenticità delle nostre misure. Lo storico d'un mondo sempre bagnato da una luce uguale, senza giorni, senza notti, senza mesi e senza stagioni, potrebbe descrivere soltanto un presente più o meno completo. E’ dal quadro stesso della nostra vita che ci viene la misura del tempo, e la tecnica della storia ricalca, a questo riguardo l’organizzazione naturale.
Per questa ragione, soggetti come siamo ad un ordine così necessario e confermato da ogni parte, ci si può senza dubbio scusare se commettiamo qualche grave confusione tra la cronologia e la vita, tra il punto di riferimento e il fatto, tra la misura e l’azione. Abbiamo un'estrema repugnanza a rinunciare ad una concezione isocrona del tempo, giacché attribuiamo a coteste misure uguali, non soltanto un valore metrico che è fuori discussione, ma anche una specie d'autorità organica. Le misure diventano inquadrature, e le inquadrature, corpi. Noi personifichiamo. Niente è più curioso a questo riguardo della nozione di secolo. Duriamo fatica a non concepire un secolo come un essere vivente, a rifiutargli una rassomiglianza coll'uomo stesso. Ogni secolo ci si mostra col suo colore, la sua fisionomia, e proietta l’ombra d'un certo profilo. Forse non è del tutto illegittimo il configurare tali vasti paesaggi del tempo. Una conseguenza notevole di questo organicismo consiste nel far cominciare ogni secolo con una specie d'infanzia che si prolunga nella giovinezza, cui dà poi il cambio l'eta matura, e infine la decrepitezza. Forse, per un effetto singolare della coscienza storica questa forma finisce con l’agire in maniera concreta. A forza di maneggiarla, di darle corpo e d'interpretare i diversi periodi di questi cent'anni come le diverse età dell'uomo, racchiuse tra le due parentesi della nascita e della morte, forse l’umanità prende l’abitudine di vivere a secoli. Questa finzione collettiva agisce sul lavoro dello storico. Ma, se si accetta che il senso comune abbia potuto «realizzare», intorno all’anno 1900, la nozione di «fin de siècle», è difficile ammettere che la fine o l'inizio cronologico d'un secolo qualunque coincida fatalmente con l'inizio o la fine d'un'attività storica. I nostri studi tuttavia non vanno esenti da questa mistica «secolare» e basta, per rendersene conto, consultare l'indice di un gran numero di opere.
La concezione che abbiamo esposto or ora ha in sé qualcosa di monumentale: organizza il tempo come un'architettura, lo ripartisce, come le masse d'un edificio, su un determinato piano, in ambienti cronologici stabili. E’ anche il tempo dei musei, distribuito in sale ed in vetrine. Questa concezione tende a modellare la vita storica secondo inquadrature definite, ed anche a dare a queste ultime un valore attivo. Ma, in fondo a noi stessi, noi non ignoriamo che il tempo è divenire, e correggiamo con maggiore o minor felicità la nostra concezione monumentale, con quella d'un tempo fluido e d'una durata plastica. Ci è forza riconoscere che una generazione è un complesso dove si giustappongono tutte le età dell'uomo, che un secolo è più o meno lungo, che i periodi trapassano gli uni negli altri. L'elemento fondamentale della cronologia, la data, permette precisamente di restringere cotesti eccessi di misurazione. E’ la sicurezza dello storico.
Non è a dire che la mistica che s'esercita sulla nozione di secolo non si eserciti anche so quella di data, considerata come polo d'attrazione, come forza in sé.
Ma una stessa data stringe l'estrema diversità dei luoghi, l'estrema diversità dell'azione e, nello stesso luogo, azioni pure diversissime, l'ordine politico, l'ordine economico, l'ordine sociale, l'ordine delle arti. Lo storico che legge in successione legge anche in larghezza, in sincronismo, come il musicista legge uno spartito d'orchestra. La storia non è affatto unilineare e puramente successiva: può essere considerata come una sovrapposizione di presenti largamente estesi. Dal fatto che i diversi modi dell'azione sono contemporanei, cioè colti nel medesimo istante, non deriva ch'essi si trovino tutti allo stesso punto del loro sviluppo. Alla stessa data, il politico, l’economico e l'artistico non occupano la medesima posizione sulla loro curva rispettiva, e la linea che li unisce in un dato momento è il più delle volte molto sinuosa. Teoricamente lo ammettiamo senza difficoltà; nella pratica, ci avviene di cedere ad un bisogno d'armonia prestabilita, e di considerare la data come un focolaio o come un punto di concentrazione. Non diciamo che non lo possa essere; ma non lo è per definizione. La storia è di solito un conflitto di precocità, d'attualità e di ritardi.
Ciascun ordine dell'azione obbedisce al suo proprio movimento, determinato da esigenze interne, rallentato o accelerato da contatti. Non soltanto questi movimenti sono dissimili tra loro, ma ciascun d'essi non è uniforme. La storia dell'arte ci mostra, poste nello stesso momento, sopravvivenze e anticipazioni: forme lente, ritardatarie, contemporanee di forme ardite e rapide. Un monumento datato con certezza può essere anteriore o posteriore alla sua data, e questa e precisamente la ragione per cui è necessario cominciare col datarlo. Il tempo può essere ad onde corte e ad onde lunghe, e la cronologia serve, non a provare la costanza e l’isocronia dei movimenti, ma a misurare le differenze di lunghezza d'onda.
Ci rendiamo conto ormai della maniera come s'imposta il problema della forma nel tempo. Esso è duplice. Per prima cosa, è un problema d'ordine interno: qual è la posizione dell'opera nello sviluppo formate? Poi, problema esterno: qual è il rapporto di questo sviluppo con gli altri aspetti dell'attività? Se il tempo dell'opera d'arte fosse il tempo di tutta la storia, e se tutta la storia progredisse con lo stesso movimento, la questione non si porrebbe nemmeno; ma non è cosi. La storia non è una sequenza bene scandita di quadri armonici, ma, in ognuno dei suoi punti, è diversità, scambio, conflitto. L'arte vi è impegnata e, poiché è azione, agisce, in esso e fuori di esso.
Secondo il Taine, l'arte è un capolavoro di convergenza esterna, Qui è la più grave insufficienza del sistema. Essa ci urta anche più del falso rigore del determinismo e del suo carattere provvidenziale. Il suo merito è d'avere arredato il tempo, cessando di considerarlo come una forza in sé, mentre non é nulla, come lo spazio, se non a condizione d'essere vissuto; è d'averla fatta finita col mito del dio con la falce, distruttore o creatore, e cercato un legame tra i diversi sforzi dell'uomo, nelle sue razze, i suoi ambienti i suoi momenti: con ciò, il Taine istituì senza dubbio una tecnica durevole, ma più per la storia della cultura che per la storia dell'arte. Ci si può domandare tuttavia se questo magnifico ideologo della vita, sostituendo il pieno della cultura umana al vuoto attivo del tempo, abbia fatto cosa diversa dal cambiare di mitologia.
Non sta a noi sottoporre un'altra volta alla critica la vecchia nozione di razza, sempre soggetta a confusione tra l'etnografia, l'antropologia e la linguistica. In qualunque maniera la si consideri, la razza non è stabile e costante. Essa ci impoverisce, s'accresce, si mescola. Si modifica sotto l'azione del clima, ed il solo fatto che si muove implica cambiamento. I sedentari come i nomadi sono esposti da tutte le parti. Non esistono nell'universo vivai di razze pure. La pratica più severa dell’endogamia non impedisce gli incroci. Le sedi insulari meglio difese sono aperte a infiltrazioni e invasioni. Anche la costanza dei segni antropologici non porta con se l’immutabilità dei valori. L'uomo vi lavora sopra. Senza dubbio, egli non annulla quegli antichi depositi del tempo: bisogna tenerne conto. Essi inseriscono nell’equilibrio complesso di una cultura delle inflessioni, degli accenti, simili a quelli che caratterizzano il parlare d'una lingua. E’ vero che l’arte talvolta dà loro uno strano rilievo. Sorgono come blocchi erratici, testimoni del passato in un paesaggio divenuto pacifico. Si può ammettere che certi artisti siano particolarmente «etnici»; ma sono casi, non un fatto costante. Giacché l'arte si fa nel mondo delle forme e non nella regione indeterminata degli istinti. Il fatto di strappare alla penombra della vita psicologica l'istinto d'un'opera, suppone una quantità di nuovi contatti e il dominio di nuovi dati. La vocazione formale agisce, le affinità s'incatenano, l'artista raggiunge il suo gruppo. Nella razza più strettamente connessa, come negare che esista una grande diversità di famiglie spirituali, che sovrappongono le loro maglie a quelle delle razze stesse? E l'artista non appartiene soltanto ad una famiglia spirituale ed a una razza; ma appartiene anche ad una famiglia artistica, poiché è un uomo che lavora le forme, e che le forme, alla loro volta, lavorano.
Così ci si impune una limitazione prudente, o piuttosto uno spostamento di valori. Ma non è vero che certe regioni dell'arte, dove lo sforzo è più docile alla tradizione e allo spirito delle collettività, mostrano relazioni più strette tra l'uomo e il suo gruppo etnico: per esempio l’ornamento, le arti popolari? Certi blocchi formali non sono la lingua autentica di certe razze? Non vi è nell’intreccio l'immagine e il segno d'un modo di pensare proprio dei popoli del Nord? Ma l'intreccio, e in modo più generale, il vocabolario geometrico, appartengono in comune a tutta l'umanità primitiva e, quando riappaiono agli albori dell'alto medioevo, quando ricoprono l’antropomorfismo mediterraneo e lo snaturano, più  che dell’urto di due razze, si tratta dell’incontro di due stati del tempo, o, a parlare più chiaramente, di due stati dell'uomo. In ambienti remoti, le arti popolari mantengono lo stato antico, il tempo immobile, i vecchi vocabolari della preistoria, con un'unità che supera le divisioni etnografiche, e che è colorata soltanto dai paesaggi della vita storica. Si può fare la stessa critica, ma in un altro senso, all’interpretazione che il romanticismo dava dell'arte gotica: complesse, enormi, ombrose, le cattedrali passavano allora per l'espressione decisiva d'una razza, che invece le conobbe soltanto tardi e le imitò sempre con angustia. Vi si vedeva rivivere il genio delle foreste, un naturalisrno confuso, misto agli ardori della fede. Queste idee non sono ancora completamente spente; ogni generazione presta loro una vita effimera, ed hanno la periodicità dei miti collettivi, che introducono nella storia una nota di leggenda. L'osservazione delle forme, quale noi cerchiamo di portar innanzi, distrugge questa poetica d'accatto, questo programma alla rovescia, e mette in luce una logica sperimentale che infligge loro da ogni parte una rigorosa smentita.
L'uomo non è sigillato in una definizione eterna, è aperto agli scambi e agli accordi. I gruppi ch'egli costituisce sono dovuti, piuttosto che ad una fatalità biologica, alla libertà dell'adattamento deliberato, all'ascendente delle forti personalità, al lavoro costante della civiltà. Una nazione è, anch’essa, una lunga esperienza. Anch'essa continuamente pensa e si costruisce. Si può considerarla come un'opera d'arte. La civiltà non è un riflesso, ma una presa di possesso progressiva ed un rinnovamento. Procede come un pittore, per tratteggi, per tocchi, che arricchiscono l'immagine. Così si disegnano, sul fondo oscuro delle razze, differenti ritratti dell'uomo, opere dell'uomo stesso, modi di vita che sono gia paesaggi ed interni e che «formano» pur essi lo spazio, la materia, il tempo. I gruppi nazionali tendono a divenire famiglie spirituali. A questo titolo, preferiscono certe forme. I diversi stati degli stili non si succedono nella loro storia con lo stesso rigore. Certi popoli conservano nello stato barocco la misura e la stabilità  classiche, certi altri mescolano l'accento barocco alla purezza del loro classicismo.
S'ha dunque ragione di riconoscere che le scuole nazionali non sono soltanto delle inquadrature. Ma entro questi gruppi, sopra di essi, la vita delle forme stabilisce una specie di mobile comunità. Esiste un’Europa romanica, un’Europa gotica, un’Europa umanista, un’Europa romantica. Nella preparazione di quel che noi chiamiamo il medioevo, l’Occidente collabora con l’Oriente. Nel corso della storia, vi son dei periodi nei quali gli uomini pensano nello stesso tempo le stesse forme. L'influenza non è allora che il mezzo delle affinità, e si può dire che non si eserciti al di fuori di queste. Per capire come si fanno e si disfanno coteste umanità instabili, non sarebbe forse inutile riassumere la vecchia distinzione saint-simoniana tra epoche critiche ed epoche organiche, le une caratterizzate dalla molteplicità contraddittoria delle esperienze, le altre dall'unita e dalla costanza dei risultati acquisiti. Ma sussistono sempre precocità e ritardi in ogni epoca organica, che resta, sotto sotto, critica.
Né le differenze dei gruppi umani, né i contrasti dei secoli o delle epoche bastano a spiegarci i movimenti singolari che precipitano o rallentano la vita delle forme. La complessità dei fattori è considerevole. Può agire in senso contrario. Di tali ineguaglianze, lo studio delle origini del gotico fiorito francese ci offre un esempio curioso. Secondo certi autori, tali origini si spiegano con l’influenza inglese nel corso della guerra dei cent’anni. Secondo altri, l’architettura francese del XIII secolo contiene già il principio dell’arte fiammeggiante (gotica fiorita), la controcurva. Queste posizioni sono tutt’e due vere. E’ esatto, infatti, che la controcurva sia implicita nel disegno di certe forme francesi antiche e che l’incontro dell'arco spezzato e del lobo inferiore d'un quadrifoglio ne dia il tracciato perfetto: ma la nostra arte non la deduce, anzi la trattiene, la dissimula come un principio contrario alla stabilità dell'architettura e all’unità monumentale degli effetti. Frattanto, dalla seconda meta del XIII secolo, in Inghilterra, lo sviluppo stilistico tocca il barocco, abbonda di curve e di controcurve, confessa e definisce un nuovo stato dell'architettura, al quale del resto deve quasi subito rinunciare. L’incontro storico dei due stati differenti, delle due velocità ineguali, provoca nell’arte francese, non una rivoluzione per inserzione di apporti estranei, ma, più esattamente, un mutamento che fa riapparire certi caratteri antichi e nascosti, dando loro una virulenza nuova.
Il problema, d'altronde, è tutt’altro che semplice. Non basta, per fissarlo, paragonare, qui e la, gli stati d'uno stile, studiare le modalità e gli effetti del loro contatto. Bisogna anche esaminare quelle parti, che non sono necessariamente sincrone. Il gotico inglese rimane a lungo fedele alla concezione delle masse dell’arte normanna, mentre, nel tracciato delle curve, procede rapidamente in anticipo; e così è insieme e nello stesso tempo un'arte precoce ed un'arte conservatrice.
Si posson fare analoghe osservazioni a proposito della lentezza dell'evoluzione architettonica in Germania. Mentre in Francia si moltiplicano e s'incatenano esperienze che, in un secolo e mezzo, passano dalle forme arcaiche dell’arte romanica alle forme mature dell'arte gotica, l'arte ottoniana, da un lato è ancor immersa nell’arte carolingia, e dall'altro continua ad impregnare l'arte romanica del Reno, che conserva i suoi caratteri anche quando ha accolto la crociera ogivale.

Non è qui il genio d’una razza o d’un popolo che agisce come freno, ma il peso degli esempi, legati ad una tradizione politica che fu forma, anch'essa, imposta alla Germania pagana e preistorica dai creatori d'un ordine moderno – forma e programma concepiti come tali da civilizzatori, i quali diedero subito proporzioni imperiali alle loro fondazioni su un terreno vergine. La Germania ne conservò l'ossessione dell’enormità. Non si vide mai l'architettura collaborare più manifestamente alla creazione d'un mondo e mantenerlo con maggior rigore attraverso i tempi.
L'autorità monumentale degli esempi e la forza della tradizione formale pesavano da ogni parte sulla Germania e vi rallentavano le metamorfosi. Frattanto, lungo l’Aisne e l’Oise, in una mediocrità rustica dove l’impero aveva avuto poca presa e poco aveva lasciato, si elaborava la definizione dello stile ogivale. Tentata altrove, non era riuscita, o solo in forme bastarde, dovunque la volta romanica le opponeva dei capolavori.
Nel Domaine royal, la libertà delle esperienze affrettava la crescita dell'arte gotica, fino al giorno in cui i suoi risultati dovevan chiudere tutto l’orizzonte ed imporre a loro volta una formula dalle lente variazioni.
Ma, studiando il rapporto tra lo sviluppo stilistico e lo sviluppo storico, non dobbiamo far posto anche all’influenza esercitata dagli ambienti naturali e dagli ambienti sociali sulla vita delle forme?
Malgrado l'importanza dei fenomeni di traslazione, sembra difficile concepire l’architettura al di fuori d'un ambiente. Nelle sue forme originali, quest'arte è fortemente ancorata alla terra, sottomessa all'ordinazione, fedele a un programma. Innalza i suoi monumenti in un cielo e in un clima definiti; su una terra che le fornisce i suoi materiali, e non altri; in un luogo d’un certo carattere; in una città più o meno ricca, più o meno popolata, più o meno abbondante di mano d'opera. Risponde a bisogni collettivi, anche quando costruisce abitazioni private. E’ geografica e sociologica. Il mattone, la pietra, il marmo, i materiali vulcanici non sono semplici elementi di colore, ma elementi di struttura. L'abbondanza delle piogge determina i comignoli acuti, le gronde, gli spigoloni installati sull’estradosso dei mezz'archi. La siccità permette di sostituire le terrazze ai tetti. Lo splendore della luce implica le navate ombrose. Una luce grigia reclama aperture numerose. La rarità e il caro prezzo del terreno nelle città popolose suggeriscono gli strapiombi e i piani a mensola. D'altra parte, gli ambienti storici, come i confini dei grandi stati feudali in Francia nell’XI e XII secolo, aiutano a ripartire le diverse famiglie di chiese romaniche. L’azione concomitante della monarchia capetingia, dell'episcopato e delle genti delle città nello sviluppo delle cattedrali gotiche mostra quale influenza decisiva può esercitare il concorso delle forze sociali. Ma quest’azione così potente è inetta a risolvere un problema di statica, a combinare un rapporto di valori. Il muratore che tese due nervature di pietra incrociate ad angolo retto sotto il campanile nord di Bayeux, quello che inserì l’ogiva, sotto una diversa incidenza, nel deambulatorio di Morien-Val, l’autore del coro di Saint-Denis furono dei calcolatori che lavoravano su dei solidi, non degli storici interpreti del tempo. Lo studio più attento dell'ambiente più omogeneo, il fascio di circostanze più strettamente serrato, non ci danno il disegno delle torri di Laon. Come l'uomo, con le colture, i diboscamenti, i canali, le strade, modifica la faccia della terra e crea una specie di geografia tutta sua, così l'architetto produce condizioni nuove per la vita storica, per la vita sociale, per la vita morale. L'arte è creatrice di ambienti imprevedibili. Soddisfa certi bisogni, e ne propaga altri. Inventa un mondo.
La nozione di ambiente non deve quindi essere assunta allo stato bruto. Bisogna scomporla, riconoscere ch'essa è una variabile, un movimento. Il geografico, il topografico e l’economico, sebbene collegati, non sono dello stesso ordine. Venezia è un posto di rifugio, scelto come inaccessibile, ed è un posto di commercio, divenuto prospero per facilità di accesso. I suoi palazzi sono delle agenzie. Esprimono l'accrescersi della sua fortuna. S'aprono comodamente su portici, che sono scali e fondaci. L’economia s'adatta qui alla topografia e trae da questa il miglior partito. La ricchezza nata dal commercio spiega il fasto che regna su queste facciate con una specie di insolenza, così come il lusso arabo d'una città che s'apre insieme sul Levante e sul Ponente. Il miraggio perpetuo dell’acqua e dei suoi riflessi, le particelle cristalline in sospensione nell'umidità dell'aria, han fatto nascere certi sogni, certi gusti che si traducono con magnificenza nella fantasia dei poeti, nel calore dei coloristi. In nessun luogo meglio di qui potremmo credere di raggiungere attraverso i dati d'ambiente, e anche ricorrendo ad una mescolanza etnica, che non sarebbe impossibile dosare, la genealogia temporale dell'opera d'arte.
Ma Venezia ha lavorato su Venezia con una sbalorditiva libertà; il paradosso delta sua struttura ha fatto forza contro gli elementi; essa ha installato sulla sabbia e nelle acque delle masse romane, ha ritagliato contro un cielo piovoso dei profili orientali concepiti per la fissità del sole, non s'è stancata di dar battaglia al mare con istituzioni speciali, il magistrato delle acque, e con opere di muratura, i murazzi; infine i suoi pittori si sono dilettati specialmente di paesaggi di foreste e di montagne, di cui sono andati a cercare le verdi profondità nelle Alpi Carniche.
Avviene dunque che il pittore evada dal suo ambiente per sceglierne un altro. Sceltolo, lo trasfigura e lo ricrea, gli conferisce un valore universale e umano. Rembrandt, pittore dapprima di solennità mediche, di dissezioni accademiche, evade da un'Olanda tutta assestata e linda, borghese, rigorista, aneddotica, amica della musica da camera, dei mobili lustri, dei parlatori lastricati, e approda alla Bibbia, alla sua luminosa sordidezza, alla sua marmaglia in brandelli, alla sua pidocchiaia folgorante. V'era a portata di mano il ghetto d'Amsterdam; ma bisognava penetrarvi e impadronirsene, bisognava farvi vivere, sotto il cenciume dello strozzinaggio dei giudei portoghesi, l’ansietà dell'Antico Testamento sul punto di generare il Nuovo; bisognava farvi splendere l’apocalisse della luce: un sole in lotta con la notte entro caverne profetiche. In mezzo a questo mondo insieme secolare e vivo, gelosamente chiuso e pieno di nomadi, Rembrandt si pone fuori dell'Olanda, fuori del tempo. Anche nel ghetto, egli poteva rimanere un pittore di costumi, il cronista d'un quartiere: ma è proprio a queste proporzioni che non bisogna ridurlo. E’ ben chiaro che questo ambiente di sua scelta ebbe interesse per lui soltanto perché dava spazio ai suoi sogni e li favoriva. Essi vi toccavano terra, vi assumevano un volto. Il mondo di Rembrandt vi s'adatta, vi trova un accordo che l’esalta, ma egli non vi si limita. Egli genera dei paesaggi, una luce, un’umanità che sono l’Olanda, ma soprannaturale.
Il caso Van Dyck meriterebbe un'analisi particola re. Toccherebbe la filosofia del ritratto; ma interessa direttamente la nostra critica. Ci si può domandare se questo principe di Galles della pittura (per conservargli il titolo datogli dal Fromentin) non abbia, in larga misura, contribuito a creare un ambiente sociale, invertendo così i termini di una proposizione comunemente ammessa. Egli abita un’Inghilterra ancora bruta e violenta, ancor agitata da rivoluzioni, dedita a piaceri istintivi e conservante sotto la leggera vernice della vita di corte gli appetiti della merry England. Ne dipinge gli eroi e le eroine con la sua distinzione naturale, anche quando ha per modelli dei pezzi di compagnoni come il grosso Endemione Potter, e, da quelle ragazze allegre, da quegli avventurieri della galanteria mondana, egli estrae una fierezza di tratto, una prestanza cavalleresca, e persino quella romantica malinconia che, prima di tutto, sono dentro di lui: e con cui egli segna, come con un affascinante sigillo, i poeti e i capitani. A ciò concorre il fiore brillante della sua pittura: quella materia di pregio, fine, fluida, quella gamma argentina, che compongono il più delicato dei lussi della vista. Ecco lo specchio ch'egli offre allo snobismo inglese, il quale oramai, durante generazioni, attraverso i cambiamenti della moda, vi si riflette con compiacenza. I modelli di ieri si sforzano di somigliare ai ritratti d'un tempo e, dietro queste immagini esemplari, s'indovina la presenza invisibile del consigliere segreto.
Razza ed ambiente non sono sospesi al di sopra del tempo. L'una e l’altro sono tempo vissuto e formato; per questo sono dati propriamente storici. La razza è uno sviluppo, sottomesso a irregolarità, a mutazioni, a scambi. Lo stesso ambiente geografico, sul suo zoccolo apparentemente infrangibile, è  suscettibile d'essere modificato; quanto agli ambienti sociali, la loro ineguale attività vive, pur essa, nel tempo. Perciò il momento deve necessariamente aver la sua a parte. Ma che è il momento? Abbiamo mostrato che il tempo storico è successivo, ma che non è successione pura. Ilmomento non e un punto qualunque sopra una retta, ma un rigonfiamento, un nodo. Non è nemmeno il totale addizionale del passato, ma il luogo d'incontro di parecchie forme del presente. Ma vi è un accordo necessario tra il momento della razza, il momento dell’ambiente e il momento d'una vita umana? Forse il carattere proprio dell’opera d’arte è di captare, di figurare, e, in certa misura, di provocare quest’accordo? Sembra a prima vista che qui noi tocchiamo quel c’è di essenziale nel rapporto tra l'arte e la storia. L'arte apparirebbe così come una mirabile serie di eventi cronologici, come la trasposizione nello spazio di tutta una gamma d’attualità profonde. Ma questa seducente ipotesi è superficiale. L'opera d'arte è attuale ed è inattuale. Razza, ambiente, momento non sono per natura e costantemente favorevoli a questa o a quella famiglia di spiriti. L'istante spirituale della nostra vita non coincide necessariamente con un'urgenza storica; la può persino contraddire. Lo stato della vita delle forme non si confonde di pieno diritto con lo stato della vita sociale. Il tempo che porta l’opera d'arte non la definisce nel suo principio, né nella particolarità della sua forma. Questa è capace anche di slittare nelle sue tre direzioni. L'artista abita una contrada del tempo, che non è necessariamente la storia del suo tempo. Può, già lo dicemmo, essere l'ardente contemporaneo della sua epoca, ed anche farsi un programma di questo atteggiamento. Ma con la stessa costanza può scegliersi esempi e modelli nel passato, crearvisi un ambiente completo. Può configurarsi un avvenire che urti insieme il presente e il passato. Una mutazione brusca nell'equilibrio dei suoi valori etnici può metterlo in opposizione categorica con l’ambiente, col momento, e far nascere in lui una nostalgia rivoluzionaria. Allora, egli va in cerca del mondo di cui ha bisogno. Certo, esistono dei geni moderati, facili, almeno apparentemente, e sorretti da quello che un certo determinismo chiama le circostanze fortunate. Queste grandi vite dalla superficie piana nascondono dei conflitti. La storia della forma in Raffaello, mitico eroe della felicità, rivela le sue crisi. Il suo tempo gli offre le immagini più diverse e le contraddizioni più flagranti. Sollecita nella sua anima, volta a volta, non so quale debolezza, non so quale duttilità degli istinti. Infine, con ardire, egli inserisce nella sua epoca un tempo, un ambiente nuovi.
Questa potenza particolare ci colpirà assai più, se rifletteremo che il momento dell’opera d’arte non è necessariamente il momento del gusto. Ci è agevole ammettere che la storia del gusto rifletta con fedeltà dei dati sociologici, a condizione di farvi intervenire degli imponderabili che modificano tutto, come l’elemento fantastico della moda. Il gusto può qualificare i caratteri secondari di certe opere, il loro tono, la loro aria, le loro regole esteriori. Certe opere qualificano il gusto, lo segnano profondamente. Quest’accordo con il momento o piuttosto questa creazione del momento è talvolta immediata e spontanea, talvolta lenta, sorda e difficile. Si sarebbe tentati di concludere che, nel primo caso, l’opera promulga d’un tratto, con imperio, un'attualità necessaria, che si cercava ancora attraverso deboli movimenti; mentre, nel secondo, raggiunge la sua propria attualità, e, come si dice, in anticipo sul momento del gusto. Ma, in un caso o nell’altro, nell'istante in cui nasce, essa è un fenomeno di rottura. Un’espressione corrente ce lo fa vivamente sentire: «far data», non è inserirsi passivamente nella cronologia, è far precipitare il momento.
Alla nozione di momento giova dunque aggiungere la nozione di avvenimento, che la corregge e la completa. Che cos’è l'avvenimento? L'abbiamo appena detto: un improvviso, efficace scioglimento. Questo stesso scioglimento può essere relativo o assoluto, contatto e contrasto tra due sviluppi ineguali, o cambiamento all'interno d'uno di essi. Una forma può acquistare la qualità novatrice e rivoluzionaria senza essere avvenimento per se stessa, e per il semplice fatto d’essere trasportata da un ambiente rapido ad un ambiente lento, o viceversa. Ma può anche essere avvenimento formale senza essere nello stesso tempo avvenimento storico. Intravvediamo così una specie di struttura mobile del tempo, dove intervengono diversi ordini di rapporti, secondo la diversità dei movimenti. Essa è analoga nel suo principio a quella costruzione dello spazio, della materia e dello spirito, di cui lo studio delle forme ci ha mostrato numerosi esempi e, forse, alcune regole molto generali. Se l’opera d'arte crea degli ambienti formali che intervengono nella definizione degli ambienti umani; se le famiglie spirituali hanno una realtà storica e psicologica non meno manifesta che i gruppi linguistici e i gruppi etnici, essa dev’essere del pari avvenimento, cioè a dire struttura e definizione del tempo. Queste famiglie, questi ambienti, questi avvenimenti provocati dalla vita delle forme agiscono alla loro volta sulla vita delle forme e sulla vita storica. Essi vi collaborano con i momenti della civiltà, con gli ambienti naturali e gli ambienti sociali, con le razze umane. E’ questa molteplicità dei fattori che s’oppone al rigore del determinismo e che, frantumandolo in azioni e reazioni innumerevoli, provoca da ogni parte crepe e disaccordi. In questi mondi immaginari, di cui l’artista è il geometra e il meccanico, il fisico e il chimico, lo psicologo e lo storico, la forma, nel gioco delle metamorfosi, va perpetuamente dalla sua necessita alla sua libertà.

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