IL SIGNOR MONOD E LA DIALETTICA

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Programme Communiste . n.58 . 1973
arteideologia raccolta supplementi
made n.18 Dicembre 2019
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Come il signor Monod distruggerebbe la dialettica 

1.7 . La Cittadella Scientifica Universale 

Dopo aver visto di fronte a che razza di filosofia «soprannaturale» il mondo borghese, con alla testa il premio Nobel, si inchina, prenderemo in esame come il nostro adoratore dell’irrazionale concepisce un ordine sociale razionale, quello che, in opposizione col socialismo proletario profano, egli battezza «vero socialismo».
Nell’ultimo capitolo del suo libro, Monod prende atto con soddisfazione che la scienza ha conquistato un posto di primo piano nelle «società moderne», ma lamenta che queste ultime, «liberali o marxiste che siano» (?!), rimangono sorde al «suo messaggio» (?), perché vogliono sì utilizzarla per produrre maggiori ricchezze, ma si rifiutano di mettersi al suo servizio. Monod non nasconde la sua profonda disapprovazione e reputa urgente il porvi rimedio attraverso un totale capovolgimento... ideologico! Dopo tutto, la «scienza» è l’attività assegnata al professore dalla divisione sociale del lavoro e che egli, con un’aberrazione abbastanza diffusa, perché derivante proprio da quella divisione, considera come l’unica attività vera. Di qui a pensare che la scienza è anche la sola attività che possa giustificare l’esistenza della stessa società il passo è breve, e Monod lo compie baldanzosamente, lanciandosi nella descrizione di un ordine sociale fondato (sic!) sull’etica (sic!!) della conoscenza, «etica che darebbe luogo a istituzioni votate alla difesa del Regno trascendente delle idee... in cui, liberato dalle costrizioni materiali... l’uomo potrebbe finalmente vivere in modo autentico».
L’organizzazione della specie umana in società stabili, che rispondeva alla necessità di sopravvivere, è stato il risultato delle sue caratteristiche di unica specie produttrice, senza bisogno di altre «giustificazioni». Inoltre, la formazione di un dato tipo di società, il suo sviluppo, il suo passaggio a un tipo superiore sono retti non dai desideri degli uomini, fossero anche premi Nobel, ma da leggi oggettive, come lo sviluppo delle forze produttive, la lotta di classe, la vittoria rivoluzionaria della classe oppressa; beninteso, la collocazione di una attività sociale qualsiasi, compresa la nobile attività scientifica, nell’insieme delle attività umane è anch’essa direttamente o indirettamente subordinata a quei fattori materiali e brutali. Ma di tutto questo il signor Monod non vuol saperne o meglio non è in grado di comprenderlo, non solo perché è complessivamente solidale con la borghesia, ma anche a causa della visione limitata che la sua limitata attività sociale gli impone: ecco spiegato il segreto delle frottole che ci viene propinando sul fatto che in una società razionale non sarebbe la scienza ad essere al servizio della specie, ma, al contrario, la specie al servizio della scienza (?!), magari con l’ausilio di... istituzioni repressive adatte alla bisogna! Eccola allora saltar fuori, ma nel campo storico e sociale, quella «proiezione animista» che Monod ha rinfacciato al marxismo di voler introdurre nelle scienze della natura, ripetendo con sospetta insistenza quest’accusa balorda per pagine e pagine! In altre parole, il signor Monod che, come tutti i suoi compari, rifiuta visceralmente l’applicazione del determinismo scientifico alla società, alla storia e quindi all’avvenire della specie, finisce per sognare una società modellata secondo i pregiudizi particolari della sua casta di appartenenza: mera paranoia ideologica!
Adeguandosi alla moda del XX secolo, Monod presenta come il solo «vero socialismo» il suo «Regno trascendente delle idee». Ma tiene a precisare che il passaggio a questo Eden potrà avvenire solo alla condizione di... «abbandonare totalmente l’ideologia che domina il pensiero socialista da un secolo e più». In altri termini: morte al socialismo scientifico, alla sua maledetta dialettica teorica e alla sua ancora più maledetta rivoluzione pratica. Ma cosa propone in cambio al proletariato rivoluzionario? Nulla. O piuttosto la trasmutazione magica della sua etica personale in una società e (udite!) in uno Stato reali e la transustanziazione degli uomini di carne e sangue in... puri spiriti, sotto l’effetto di una «liberazione dalle costrizioni materiali» di cui questo grande scienziato non si è degnato di rivelare a noi altri, poveri «animisti», le vie e le forme. Come può un borghese reazionario e idealista comprendere che il vero problema è quello della liberazione del proletariato, e al limite di tutta la specie, dalle barbare costrizioni che su di esso fa pesare il dominio del capitale?
È giunto finalmente il momento di volgere le terga a questo sacerdote del caso, a questo «socialista» della proteina, a questo rappresentante classico, perfetto della decomposizione borghese per studiare, come avevamo promesso, il testo di Engels sul «ruolo avuto dal lavoro nella trasformazione della scimmia in uomo». Esso mostrerà chiaramente al lettore che, dopo più di un secolo, l’applicazione delle tesi del materialismo dialettico ai problemi dell’evoluzione ha portato a risultati ben più significativi di quanto non abbia ottenuto la «moderna» teoria neo-darwinista (cosiddetta sintetica) e a maggior ragione la metafisica di un biologo molecolare ammalato di presunzione. 

2o . I criteri distintivi umani e il ruolo avuto dal lavoro nel processo di trasformazione della scimmia in uomo 

È importante innanzitutto ricostruire la lotta portata avanti dalla Paleontologia umana contro le resistenze religiose e razionaliste, contro due concezioni ideologiche e storiche entrambe espressione di interessi di classe ben precisi: da una parte, il conservatorismo teologico e teocratico feudale che non può accettare le grandi categorie storiche ed evolutive che rimettono in causa l’idea di un ordine naturale e umano immutabile, fissato una volta per sempre dalla volontà divina nelle linee ferree di un piano prestabilito. Dall’altra parte, l’idealismo speculativo borghese il quale, se è vero come è vero che ha storicamente prodotto la geologia e la paleontologia, ruotanti entrambe intorno ai concetti di «divenire storico» e di «evoluzione», ciò è dovuto al fatto che il materialismo volgare dei suoi ideologi rifletteva la concezione del mondo di tutta una classe tesa a farla finita con la maniera di produrre, di scambiare e, per ciò che ci interessa qui, di pensare tipica di una formazione sociale che avendo ormai esaurito tutte le sue possibilità di sviluppo era divenuta fondamentalmente reazionaria.
Nondimeno, queste teorie non potevano non andare incontro anch’esse, per le conclusioni radicali implicite nelle grandi scoperte dell’antropologia, a resistenze ancora più forti e che erano espressione, nel cuore stesso del pensiero scientifico contemporaneo, degli interessi di classe di uno strato sociale che, avendo in mano le leve di comando della società, non poteva né voleva in ultima analisi che chiudere gli occhi sul significato di quelle conclusioni.
È classica tesi marxista che le scienze borghesi sono costrette, mano a mano che si sviluppano, a confermare le leggi del Materialismo dialettico; ma, fatto anche più importante, gli ideologi borghesi, sono portati a negare continuamente il carattere dialettico dei risultati della loro stessa scienza. Cosciente o meno, questo «rigetto» ha un senso politico preciso: esprime i limiti oltre i quali la speculazione borghese non può andare senza negare i fondamenti stessi della sua ideologia, vale a dire la concezione generale del mondo che incarna i suoi interessi di classe.
Questo fenomeno è stato particolarmente evidente per quel che concerne lo sviluppo della Paleontologia umana.
Già un secolo fa Engels aveva formulato in un breve ma denso studio l’ipotesi che il lavoro, inteso essenzialmente come attività tecnica, fosse stato alla base dello sviluppo della specie umana. Facciamo notare che questa ipotesi non poggiava su alcuna base «materiale» certa, data l’ignoranza degli «specialisti» dell’epoca e sparse le indicazioni provenienti dagli scavi.
Riassumiamo l’ipotesi di Engels nei suoi punti più importanti:
a) L’andatura eretta (bipedismo) costituisce il fatto decisivo per il «passaggio» dalla scimmia all’uomo e si accompagna con la liberazione della mano, anch’essa correlativa alla divisione delle funzioni (locomozione e prensione) tra gli arti anteriori e i piedi;– b) La mano è l’organo e il prodotto del lavoro; c) In virtù della legge di correlazione dello sviluppo secondo cui «.determinate forme di singole parti di un essere organico sono sempre collegate a certe forme di altre parti, che non hanno apparentemente alcun rapporto con le prime. Modificazioni di determinate forme portano con sé modificazioni della forma di altre parti del corpo senza che noi siamo in grado di spiegare tale rapporto.»; d) Lo sviluppo del lavoro garantito dalla liberazione della mano e dalla funzione locomotoria ha dato luogo a rapporti di assistenza e comunicazione tra i membri dei gruppi primitivi. Dall’attività tecnica discende dunque la nascita del linguaggio considerato come strumento di produzione: «.Dapprima il lavoro; dopo il lavoro e contemporaneamente al lavoro il linguaggio.».
Queste quattro tesi formulate da Engels sono state accuratamente ignorate dalla scienza ufficiale borghese che, nella questione generale della determinazione dei caratteri specifici dell’uomo legata al problema del meccanismo evolutivo, ha preferito avventurarsi nelle sabbie mobili dell’idealismo. La Paleontologia umana in effetti nel XVIII secolo parti dall’idea dell’affinità dell’uomo con i grandi primati; e non seppe far altro che imboccare la strada mediana tra le scimmie ad essa note e l’homo sapiens.
L’errore più grave e persistente fu quello di stabilire una linea diretta che univa a noi, attraverso i Neanderthaliani, il quartetto di antropoidi attuali: gorilla, scimpanzé, orango e gibbone.
La ragione di questo atteggiamento va ricercata nei presupposti idealistici dell’ideologia borghese sempre alla ricerca di un «grado zero» della coscienza umana.
Rousseau nel suo "Saggio sull’origine dell’ineguaglianza" ne dà una tipica esemplificazione: l’uomo, che allo stato di natura è dotato di tutti gli attributi «attuali», s’allontana dallo zero iniziale, inventa poco a poco sia attraverso l’imitazione degli animali sia attraverso il ragionamento ciò che, nel campo tecnico e sociale, lo conduce al mondo presente.
Siamo di fronte a una concezione «cerebrale» e quindi idealista dell’evoluzione umana, che si pone agli antipodi della tesi di Engels secondo la quale l’uomo non è definito da testa, coscienza e spirito, ma dalla facoltà specifica e sociale di produrre gli strumenti di produzione al fine di trasformare la natura e piegarla ai suoi bisogni.
La colomba disinvolta dell’idealismo non si preoccupa di poggiare le ali su una qualche base ben fondata, e teorizza i propri interessi di classe sublimandoli in «concetti».
Non è nostra intenzione ripercorrere le disavventure della Paleontologia borghese, impotente a integrare nella sua visione «razionalistica» anche le scoperte materiali più probanti, ma bisogna tuttavia arrendersi all’evidenza: il ritrovamento del clan degli «Australopiteci» e in particolare dei resti rinvenuti in Kenya dello Zinjantropo, grande australopiteco che faceva già uso di utensili di pietra, ha definitivamente smentito le castronerie che negli ultimi due secoli si sono scritte sull’argomento.
Con questo grande antenato si è delineata un’immagine dell’uomo a dir poco sconcertante per il piccolo-borghese universitario e democratico che concepisce se stesso e l’individuo umano in generale solo attraverso la testa: quella di un vero uomo con un piccolo cervello e non di un superantropoide con una grossa scatola cranica.
Ma per fortuna i fatti sono testardi, sicché il materialismo dialettico finisce sempre per penetrare anche nei cervelli più ottusi. E nel campo delle scienze la via è una sola: precisamente quella dialettica materialista, che prima o poi arriva ad imporsi. È quanto riconosce implicitamente lo specialista di turno, Leroi-Gourhan, nel suo studio sui rapporti tra tecnica e linguaggio: «A più di un secolo dalla scoperta del cranio di Gibilterra, quale immagine che presenti criteri comuni alla totalità degli uomini e dei loro antenati è possibile costruirsi? Il primo e più importante di tali criteri è la stazione eretta; ma è anche l’ultima ad essere stata riconosciuta, sicché per diverse generazioni il problema dell’uomo è stato posto su basi false.
Tutti i fossili noti, per quanto possono essere strani come l’Australopiteco, possiedono la stazione eretta. Altri due criteri fanno da corollari al primo: la faccia corta e la mano libera durante la locomozione. Per comprendere il legame esistente tra la stazione verticale e la faccia corta (che Engels aveva chiarito più di un secolo fa, n.d.r.) è stato necessario attendere questi ultimi anni con la scoperta del bacino e del femore dell’Australopiteco... La libertà della mano comporta quasi necessariamente una differenziazione dell’attività tecnica dell’uomo rispetto a quella delle scimmie: il fatto di avere libere le mani durante la locomozione unitamente a una faccia corta e priva di canini offensivi impone l’utilizzazione di organi artificiali, vale a dire gli utensili.
Posizione eretta, faccia corta, mano libera durante la locomozione e possesso di utensili mobili sono effettivamente i criteri fondamentali per distinguere l’uomo. Questo elenco tralascia del tutto i caratteri specifici delle scimmie, e da esso appare come non si possa pensare all’uomo nelle forme di transizione che avevano soddisfatto i teorici fino al 1950.
Può stupire il fatto che l’importanza del volume del cervello intervenga solo in seguito (aprite bene le orecchie signori borghesi, siete stati traditi proprio da uno dei vostri specialisti più disinteressati, costretto ad ammettere la validità delle tesi di Engels!). In realtà, è difficile dare la preminenza ad un certo carattere piuttosto che a un altro, perché nell’evoluzione della specie tutto è collegato; mi sembra certo però che lo sviluppo cerebrale sia in qualche modo un criterio secondario. Sul piano dell’evoluzione in senso stretto esso è correlativo alla posizione eretta e non, come si è creduto per molto tempo, essenziale».
Resta da precisare il ruolo svolto dal lavoro nelle trasformazioni successive della nostra specie, alla luce delle ultime scoperte della Paleontologia umana. Vedremo che, lungi dal contraddire la concezione marxista classica, per la quale il lavoro ha creato l’umanità, esse confermano in pieno le ipotesi di Engels e il metodo materialista dialettico.
Cominciamo con l’analizzare la categoria marxiana di «lavoro». Dopo aver chiarito nella II sezione del I Libro de "Il Capitale" il rapporto capitalistico borghese della compravendita della forza-lavoro, Marx arriva a definire il significato di lavoro nella sua forma più generale come: «astratto da ogni impronta particolare che può imprimergli questa o quella fase di progresso economico della società, ovvero pensato non come attività produttrice di merce (sotto l’aspetto esteriore di valore di scambio), bensì di valore d’uso, cioè di utensili o di oggetti non scambiabili necessari al consumo quotidiano. In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, di fronte alla natura, gioca egli stesso il ruolo di una potenza naturale. Egli mette in moto le forze di cui è dotato il suo corpo, braccia e gambe, testa e mani, per appropriarsi i materiali della natura e dar loro una forma utile alla vita. Operando mediante tale moto sulla natura esteriore e modificandola, egli modifica allo stesso tempo la natura sua propria e sviluppa le facoltà in questa assopite».
Ciò che caratterizza l’umanità sia a livello di specie come fattore di maturazione biologica, che sul piano individuale nel suo rapporto singolare con la natura, è quindi l’attività tecnica lavorativa poiché: «L’impiego e la creazione dei mezzi di lavoro, benché già propri, in germe, di certe specie animali, caratterizzano eminentemente il lavoro umano». Per questo Franklin definisce l’uomo «un animale che fabbrica strumenti». A questo stadio dell’analisi del processo lavorativo nei suoi momenti semplici e astratti, «da una parte l’uomo e il suo lavoro, dall’altra la natura e i suoi materiali, sono sufficienti... e non abbiamo bisogno di presentare il lavoratore in rapporto con altri lavoratori... poiché l’attività finalizzata alla produzione di valori d’uso, l’appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani, è la condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, una necessità fisica della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita o, piuttosto, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana».
A scorno del piccolo-borghese ozioso e degenerato che vede nel lavoro la «maledizione della specie», da cui lo libererebbe la società «comunista» (allegoria della caduta originale e del paradiso ritrovato), termineremo con una luminosa citazione che ben esprime quella necessità materiale sentita nella carne e assimilata nel suo piccolo cervello già dal nostro lontano antenato: «In quanto produce valori d’uso, in quanto è utile, il lavoro, indipendentemente da ogni forma di società, è la condizione indispensabile dell’esistenza dell’uomo, una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura» ("Il Capitale", I, 1).
Proprio su questa tesi cardinale - l’attività tecnica, il lavoro definito come la caratteristica specifica dell’uomo - convergono peraltro, come vedremo, le più recenti ricerche della Paleontologia umana.
Il problema ultimo intorno al quale hanno ruotato i grandi dibattiti che nel tempo hanno infiammato la scienza dei fossili umani è imperniato sul significato da attribuire alle trasformazioni della capacita encefalica e delle possibilità cerebrali verificatesi nel corso del divenire della specie.
Per la tesi idealista, il graduale diffondersi dell’homo sapiens va inteso nel senso di una ininterrotta crescita verso un punto di massima coscienza. In questa concezione, in cui l’umanità si definisce partendo dalla testa, la cultura emergerebbe a poco a poco dalle incerte brume dell’animalità per dar vita ad un essere dotato di lucida coscienza e portato a una vaga religiosità. Questa, a grandi tratti, la prospettiva di un Teilhard de Chardin, che scopre nel «fenomeno umano» una sorta di vettore lanciato verso l’acquisizione di facoltà spirituali. Naturalmente, oggi come oggi, è assolutamente impossibile dare a questo grande affresco idealistico la minima base materiale probante, contrariamente alla concezione materialistico-dialettica che poggia ormai su un complesso di prove inconfutabili.
Di fatto, la tesi che viene fuori da queste ricerche in campo paleontologico attesta che, lungi dal precedere l’evoluzione delle tecniche e del corpo, il divenire della «coscienza» va ravvisato nel suo stretto legame con le capacita di adattamento, che sono, nel caso dell’uomo, di ordine essenzialmente tecnico. Conviene però mettersi d’accordo sul termine di «coscienza». Per la tradizione filosofica idealistica, da Aristotele a Hegel, passando per Cartesio e Kant, la «Ragione» rappresenta l’unico criterio distintivo tra uomo e animale. Il linguaggio viene considerato come una realtà, schermo che maschera il pensiero attraverso cui, in qualche modo, potremmo identificarci con Dio. Così, secondo Aristotele, l’uomo «è un animale ragionevole» e le parole sono «i simboli degli stati d’animo». Per Cartesio, la Ragione è l’insieme delle nostre idee chiare e distinte, la totalità di ciò che la divinità, nella sua infinita Grazia, ha voluto che potessimo concepire. In questa tradizione, ora agonizzante, il linguaggio rappresenta la maschera dello spirito, il velo che bisogna strappare per afferrare il pensiero in tutta la sua purezza. Per il Materialismo Dialettico, al contrario, l’umanità (conviene ancora «relativizzare» quest’astrazione idealistica) non è determinata dalla testa o dalla coscienza, ovvero non esiste altra coscienza che quella espressa in una duplice materialità, come linguaggio e come prodotto sociale: «Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini» (da Marx, "L’Ideologia tedesca"). >

Il lavoro di Erostrato
Linguaggio, capacità cervicale e tecnicità devono essere intesi nel loro sviluppo parallelo e nella loro interazione reciproca, cioè come i differenti aspetti di uno stesso processo dialettico: questo, non se ne dolgano i più recalcitranti idealisti, obiettivamente confermano le ricerche e i fatti materiali recentissimi. 

2.1 . La nozione di antropomorfismo è legata a quella di tecnicità 

I concetti cardine della tradizione idealistica in campo paleontologico secondo cui i nostri più lontani antenati, gli Antropiani, sarebbero affini all’attuale famiglia delle scimmie da cui si sarebbero separati alla fine del terziario, si possono considerare ormai superati. La serie di categorie quali Pitecantropo, Preominide, Australopiteco hanno fatto il loro tempo, riflessi di una mentalità antimaterialista per la quale l’evoluzione umana esprimeva la maturazione della coscienza o dello «spirito».
Tutto all’opposto, sappiamo oggi che l’Antropomorfismo costituisce una famiglia distinta da quella delle scimmie, come attesta il gruppo degli Antropiani, ed è caratterizzata per l’adattamento della struttura del corpo all’andatura su due piedi. Questa definizione posturale dei primi «umani» si esprime in uno schema funzionale radicalmente divergente da quello delle scimmie antropiane odierne: il bacino è adattato al tronco che deve mantenersi in equilibrio, la colonna vertebrale possiede delle curve di compensazione la cui risultante è una verticale, il piede riveste una disposizione particolare (dita a raggi paralleli); infine la testa sta in equilibrio alla sommità della colonna vertebrale e il foro occipitale è ad angolo retto.
 Anche la vecchia ipotesi di una affinità con le scimmie è impossibile, a meno di cercare il nostro più lontano ascendente nel bel mezzo del terziario. Ma allora non si può più parlare di «grandi scimmie» nel senso attuale del termine.
Mentre ignoriamo quasi tutto dell’Oreopiteco, scimmia a tendenza umanoide che si fa risalire al Miocene, possediamo invece un insieme di conoscenze relativamente dettagliate circa l’esistenza, tra la fine del terziario e l’inizio del quaternario, di una popolazione africana di creature bipedi che facevano già uso di utensili, inventariata sotto vari nomi (Plesiantropi, Australantropi, Zinjantropi). L’immagine generale che tali esseri ci offrono è abbastanza coerente: camminano in posizione eretta, hanno braccia normali, si tagliano utensili stereotipi battendo pochi colpi sull’estremità di un ciottolo, hanno un’alimentazione parzialmente carnivora. Questa raffigurazione, comune per gli umani, non ha alcun rapporto con quella di qualsiasi scimmia; l’unica differenza importante, di grado però e non di natura, sta nelle dimensioni del cervello, incredibilmente piccolo (500/600 cm3).
Gli Australantropi sono quindi «uomini» a tutti gli effetti con una scatola cranica ridotta, corrispondente alla loro tecnica rudimentale: la barriera orbitale non è ancora caduta e la parte frontale del cranio continua a essere molto limitata: è l’ultimo ostacolo a scomparire prima del tipo attuale.
Ma la cosa interessante che viene fuori da tutti questi ritrovamenti è la presenza di utensili accanto ai resti di testimonianze ossee, a conferma della tesi che la tecnica è una caratteristica specifica umana che ha giocato un ruolo decisivo come agente dell’evoluzione. Dal profondo passato degli Antropiani fino allo stadio che precede il livello attuale, dallo Zinjantropo fino ai Neantropiani della razza di Cromagnon (-30.000 anni), l’evoluzione della specie umana basata sul bipedismo appare come la risultante e il contraccolpo degli effetti del lavoro sulla morfologia del cranio e la capacità encefalica, con la sparizione progressiva della prominenza sovraorbitale, l’apertura del ventaglio corticale e l’affinamento della corteccia - modificazioni che a loro volta reagiscono dialetticamente sulle possibilità tecniche della specie.
Questo processo ha abbracciato centinaia di migliaia di anni, ma possediamo sufficienti testimonianze materiali per ripercorrerne, col concorso di altri dati (teoria delle localizzazioni cerebrali, anatomia e fisiologia cerebrali), le grandi tappe.
La struttura del cervello degli ominidi è dunque in stretto rapporto con l’esercizio della tecnica presente nelle forme umane più rozze. Ma la stessa attività tecnica è contemporaneamente causa e prodotto della situazione posturale che, liberando la mano dalle esigenze della locomozione, la rende disponibile ai bisogni della vita di relazione.
Così, a differenza di quanto avviene per le scimmie antropoidi, la posizione eretta, già a partire dallo Zinjantropo ha per corollario un aumento della superficie della volta cranica nella regione fronto-temporo-parietale media. Questo aumento è graduale ed è possibile seguirne gli sviluppi dalla scimmia a ciascuna delle forme antropiane. Di fatto, se fin dai primi Australantropi l’evoluzione corporea può considerarsi compiuta, per contro l’evoluzione cerebrale è soltanto all’inizio e si esprime con il continuo aumento della superficie della corteccia nelle regioni fronto-parietali medie.
L’evoluzione della tecnica e quella, parallela, della struttura del cervello, sono concepibili soltanto all’interno di uno stesso processo dialettico che si svolge in questo modo: il lavoro si ripercuote sulla funzione cerebrale, la quale, affinandosi, dà luogo a una tecnicità più elaborata e complessa che comporta una vita di relazione più ricca, causa a sua volta di una nuova differenziazione dell’encefalo, e così via, fino al raggiungimento dell’attuale profilo d’equilibrio cerebrale medio.
Ciò detto, al fine di stabilire l’evoluzione sincronica di utensili e cervello, dobbiamo comparare i differenti stati cronologici del loro divenire in seno al gruppo zoologico degli «Antropiani». 

2.2 . La corteccia media e la sua evoluzione 

La nozione di «espansione cerebrale» e in special modo quella relativa alla corteccia media è di fondamentale importanza poiché quest’ultima è la sede della motilità primaria. Come quello dei mammiferi superiori, il cervello dell’uomo presenta, lungo il canale di Rolando, sulle circonvoluzioni frontali ascendenti, una zona motoria primaria nella quale è possibile distinguere con precisione, dalla base al vertice, i gruppi di neuroni che controllano la faccia, le dita della mano, l’arto superiore, il tronco, l’arto inferiore.
Vi si ritrova l’immagine capovolta della macchina corporea, di cui l’area suddetta costituisce il quadro di controllo. La quantità di neuroni adibita a ogni regione del corpo è proporzionale alla complessità di funzioni che se ne richiedono: nell’uomo odierno l’80% dei neuroni dell’area considerata sono adibiti al controllo motorio della testa e degli arti superiori, in altre parole i due poli del campo di relazione mobilitano i 4/5 del dispositivo motorio primario. La lingua, le labbra, la laringe e le dita rappresentano da soli quasi la metà di quest’area.
Un altro fatto presenta un notevole interesse, ed è la contiguità delle zone della faccia e della mano nell’area in questione e la loro situazione topografica comune, il che rivela la stretta coordinazione esistente tra l’azione della mano e quella degli organi anteriori della faccia. Simiani e Antropiani possiedono quindi la stessa corteccia, che presiede al movimento di tutte le parti del corpo, in cui faccia e mano rivestono un ruolo predominante. Nelle scimmie l’area motoria primaria è accompagnata da un’area premotoria conquistata mediante il primo sviluppo del ventaglio corticale, mentre nell’uomo attuale il dispositivo corticale è costituito, per quanto riguarda la parte motoria, dall’area motoria primaria, davanti alla quale si trova l’area premotoria come nelle scimmie. Ancora più avanti è venuta ad aggiungersi un’area ulteriore, contraddistinta da una struttura intermedia tra quella dell’area premotoria e quella dei lobi frontali, privi di neuroni motori. L’evoluzione procede nel senso di un’apertura del ventaglio corticale.
Un altro fatto da sottolineare è che nelle scimmie superiori la zona di corteccia che presiede al linguaggio è praticamente inesistente, per cui viene a mancare la stessa possibilità fisica di costituire un linguaggio. In compenso, a una posizione eretta e alla mano libera che può far uso di strumenti mobili, quindi a una calotta cranica notevolmente svincolata nella volta media, non può corrispondere se non un cervello già attrezzato per la parola.
L’estensione del cervello è dunque il corollario della stazione posturale e dell’attività tecnica, il correlativo del lavoro, come sta ad indicare l’evoluzione degli utensili presso gli Antropiani. 

2.3 . L’evoluzione tecnica degli Antropiani 

L’evoluzione degli utensili nell’età della pietra è avvenuta in quattro tempi: «all’origine», gli strumenti da taglio, i raschiatoi, sono ottenuti tramite semplice frantumazione di due ciottoli. In un secondo momento, gli strumenti sono «nuclei» da cui sono state rimosse delle schegge il più delle volte su entrambe le facce usando un percussore di pietra. Il terzo tempo vede la produzione di arnesi realizzati percuotendo il «nucleo» con strumenti da taglio in cui le schegge sono lavorate su una sola faccia. Infine, il quarto episodio di questa storia della lavorazione degli strumenti di pietra è quello della produzione di utensili tramite sagomatura delle schegge.
Questa evoluzione nella lavorazione della pietra nel Paleolitico ha coperto centinaia di migliaia di anni ed è il risultato dell’acquisizione di una serie di gesti supplementari che implicano già un alto grado di previsione nello svolgimento delle attività tecniche.
La notevole lentezza della differenziazione degli utensili deve evidentemente essere messo in parallelo con la lentezza caratteristica nella trasformazione del cranio antropiano: come abbiamo visto, l’evoluzione è sincronica nella misura in cui gli effetti meccanici della postura e del lavoro interagiscono sulla fisiologia e sulla morfologia generale della specie, dal momento che le trasformazioni essenziali avvengono per rimaneggiamento nelle proporzioni delle differenti parti del cervello attraverso l’aumento di densità delle cellule e la moltiplicazione delle connessioni.
 Quanto al linguaggio, espressione materiale della «coscienza», esso è legato neurologicamente alla capacità di fabbricare strumenti e i suoi gradi di evoluzione corrispondono ai diversi momenti dello sviluppo della tecnica antropiana.
L’Australantropo doveva possedere un linguaggio di livello parallelo a quello dei suoi utensili, senza dubbio poco sviluppato, ma sicuramente superiore a quei semplici segnali vocali «richiesti» dalle situazioni e determinati dall’ambiente: si tratta già di un insieme di simboli disponibili.
Gli Arcantropi, con la loro duplice serie di gesti, possedevano di certo un linguaggio dalla sintassi più elastica, ma con ogni probabilità ancora limitato all’espressione di situazioni concrete.
Nei Neanderthaliani si verifica l’esteriorizzazione dei primi simboli non «concreti» per la trasmissione differita di informazioni sotto forma di racconti e l’espressione di sentimenti ancora imprecisi.
Sebbene estremamente rischiose e vaghe, perché non verificabili, queste ipotesi sono formulate sulla base dell’indubbio legame esistente fra linguaggio e motilità tecnica, le due principali caratteristiche antropiane che interessano le medesime vie cerebrali.
Riassumiamo: la mano prodotto del lavoro, l’evoluzione delle strutture cerebrali, il raccorciamento del viso, l’apertura della corteccia media, la soppressione della barriera orbitale, questi i fatti incontestabili e materialmente verificati.
La struttura del patrimonio genetico dell’uomo deve dunque essere stata modificata nel corso della sua evoluzione in parallelo con l’utilizzazione di strumenti. Il fatto che i complessi meccanismi di questa trasformazione non siano ancora del tutto chiariti è di secondaria importanza, dal momento che ormai nuovi ulteriori dati non potrebbero contraddire lo schema generale proposto da Engels; e tutti i Monod di questo mondo, nel loro furore idealista, non possono farci niente. La visione materialistico-dialettica della «trasformazione della scimmia in uomo» è globalmente giusta.
Per ora, tanto ci basta.

Conclusione

La confutazione fornita dalle tesi di Engels alla teoria del «caso creatore», principio ultimo della trasformazione della specie secondo Monod, sebbene insufficiente, vista la limitatezza delle conoscenze, a mettere in luce tutti i meccanismi dell’evoluzione, consentirà tuttavia di orientare le ricerche future di questi settori delle scienze della natura su tutt’altre basi materialistico-dialettiche di quelle proposte finora. Ma occorrerà che la ricerca si affranchi dall’idealismo, il che presuppone la dissoluzione delle sue basi economiche e sociali, il deperimento dei rapporti borghesi di produzione. Questo farà fare un enorme salto in avanti alle scienze in generale, senza perdere di vista il soddisfacimento pratico dei bisogni reali degli uomini [1](28).
Il «segreto» dei meccanismi dell’evoluzione non va cercato nelle teorie borghesi parziali che sono sotto l’influenza del modo di pensare metafisico di cui la «filosofia naturale della biologia moderna» di Monod è una clamorosa espressione. Le scienze non si sviluppano autonomamente, non si scelgono il campo di indagine né autoproducono i loro concetti. Con tutte le loro contraddizioni, esse non sono che la manifestazione più astratta della maniera di produrre, vivere e pensare delle varie forme di società e dell’ideologia delle classi dominanti.
Così, fino al XVIII secolo, la categoria feudale di stabilità è l’immagine astratta di un ordine feudale immutabile e la matrice esplicativa dell’insieme dei fenomeni della natura: le specie sono considerate nella loro fissità come apparse una volta per tutte e, dotate dei loro attributi atemporali, perduranti in una eternità senza storia; l’idea di evoluzione non sfiora nemmeno lo spirito degli scienziati dell’«età classica», il cui pensiero rimane strettamente prigioniero dei modelli ideologici dominanti. Così, se per Buffon, ad esempio, il leone è «il re degli animali», ciò è dovuto al fatto che esso simbolizza nell’ambito del regno animale la potenza sovrana della maestà regale. Così Linneo fornisce nel suo "Sistema Naturae" una classificazione metodica e gerarchica degli esseri viventi, che egli giustappone spazialmente fuori da ogni prospettiva storica.
È merito storico della borghesia rivoluzionaria e materialista aver introdotto il concetto di evoluzione delle specie con l’aggiornamento, parallelo alla sua conquista del potere politico, della categoria filosofica di storia, a cui resta legato il nome di Hegel.
Ma se l’evoluzione come fenomeno reale fu subito accettata dalla scienza borghese, non altrettanto lo furono i suoi meccanismi che, ne abbiamo avuto un accenno con Monod, rimangono ancora per essa piuttosto oscuri e misteriosi. Per Lamarck l’evoluzione è il risultato della trasmissione dei caratteri acquisiti durante l’esistenza nel processo di adattamento all’ambiente e ai suoi cambiamenti. La sua "Filosofia zoologica" si basa su due leggi regolatrici dell’azione delle «circostanze»: 1) «L’impiego frequente e sostenuto di un organo lo fortifica e l’ingrandisce; il mancato uso lo indebolisce, lo deteriora e lo fa scomparire»; 2) «Tutto ciò che viene acquisito perduto in questo modo agisce sulla riproduzione».
Darwin spiega l’evoluzione delle specie sulla base della lotta per l’esistenza, che elimina implacabilmente i meno adatti, e operando la selezione mediante le piccole differenze che esistono fra gli individui. De Vriès è il padre del «mutazionismo» meccanico, secondo cui le variazioni sono il risultato delle trasformazioni del patrimonio genetico per salti qualitativi o «mutazioni«, senza che possano trasmettersi ereditariamente i caratteri acquisiti. Ma questo schema teorico, che rappresenta l’attuale punto di approdo della scienza borghese, non serve a spiegare altro che... l’evoluzione, senza assolutamente spiegare i grandi risultati da essa acquisiti, come per esempio la modificazione dello scheletro, perché bisognerebbe far ricorso a mutazioni successive che interessano un gran numero di ossa.
Come si vede, per i biologi borghesi il problema è ben lungi dall’essere risolto, anzi – Monod insegna – avviene un rinculo sul terreno indeterminista del ruolo assoluto svolto dal caso.
Non ci sogniamo quindi nemmeno lontanamente di «aggiornare» Engels, la cui visione globale resta di gran lunga qualitativamente superiore alle soluzioni parziali idealistiche e antidialettiche della biologia molecolare.
Il Materialismo Dialettico, al di la delle mode idealistiche borghesi, resta quanto di più nuovo vi può essere nella concezione generale della natura e della società umana; prodotto degli antagonismi di classe e scienza del proletariato rivoluzionario, esso sarà il sistema di pensiero della società comunista di domani e, per questo, si oppone alle mezze verità e alle menzogne odierne di una borghesia che, negando la sua fine prossima e ineluttabile nella Storia, non può evidentemente leggerla nella Natura!

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[1] . Questo non significa che, nel socialismo, la Scienza sarà meramente «utilitaria»: al contrario, oggi essa è utilitaria, ma per il capitale.