L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI

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Tracce di Lavoro Comune . 2017
arteideologia raccolta supplementi
made n.15 Maggio 2018
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Elementi e complementi . (appunti I.1)

Rispecchiamento e partiticità nell'arte

Continueremo a parlare di Arte, in senso stretto e in senso lato, ma in questa prima parte vogliamo affrontare l’argomento per come è stato inteso dalla dialettica materialistica dello stalinismo, quindi nel senso materialistico volgare, cioè con una concezione dell’arte che temiamo abbia permeato molti di noi e con la quale tuttora si convive tranquillamente, senza rendersene conto. E’ un punto teorico che ci distingue dal resto della sopravvivenza di quello che va normalmente sotto il nome di marxismo. E se ne avremo occasione, vedremo come nella nostra escursione lungo l’arco millenario, quando si modifica un particolare, apparentemente piccolo ma fondamentale, si modifica anche tutta una visione del mondo. E qui siamo proprio in uno di quei casi, per cui anche una diversa idea dell'arte rivela, favorisce o porta ad una concezione diversa e a volte opposta dell'universo fisico, del mondo sociale e dell’agire umano. Certamente tra le due cose deve sussistere una interazione inscindibile.
Stiamo facendo riferimento a tutto il filone che è stato fondato praticamente dal gruppo stalinista e sviluppato in gran parte da Lukács; il quale inizia come marxista e si stabilizza come stalinista per diventare un portavoce autorevole dell’ortodossia russa di quel periodo, che noi non condividiamo affatto anche se è venuta a pizzicarci in un momento di distrazione.
Difatti nella nostra letteratura abbiamo un articolo di Programma Comunista abbastanza discutibile dal punto di vista della nostra teoria. Si tratta di un testo del 1964.[1]
Molta parte dell’articolo, specialmente l’esordio in cui vene delineata la nostra visione generale riguardo l’arte e il rapporto con il partito, andrebbe riletto e approfondito [2]; ma ad un certo momento presenta un punto di convergenza, fortunatamente isolato, con lo stalinismo. Amadeo era ancora attivo ma, più interessato alla scienza moderna e molto meno se non per nulla all’arte moderna e contemporanea, non se ne accorse e lo lasciò pubblicare - probabilmente affidandosi a compagni che ritenevano di aver qualcosa da dire sull’argomento.
Ma gli incidenti possono succedere, ed è precisamente accaduto in questo modo: … non contestiamo l'invocazione formalmente corretta del principio di partiticità della letteratura e del ruolo accessorio dell'arte. Sentire anzi affermare detto principio contro astrattisti e formalisti, e in genere tutta la canaglia piccolo-borghese, può costituire un piccolo motivo di soddisfazione. Questa accozzaglia viscida e parassita, scoperta al mondo nelle pieghe della polemica, non solo "imbratta tele e raccatta immondizie", ma esprime tutto il fondo melmoso della controrivoluzione e il legame inscindibile che la unisce alla putrescente borghesia occidentale…
E’, cioè, una convergenza che affianca una concezione dell’arte,  tuttora salda nel nostro ambiente, come riflesso della realtà e rispecchiamento della struttura sociale - quindi come sovrastruttura ideologica simile alle manifestazioni filosofiche - diffusa soprattutto dal pensiero di Lukács, il quale la deriverebbe da una frase di Marx - ma da quest’ultimo sviluppata in ben altro modo da quello del filosofo ungherese. Da qui l’adesione all’invettiva contro astrattisti e formalisti.
Comunque articolata, la concezione lukacciana verrà praticamente tradotta in pittura nei termini della tradizionale mimesi della realtà circostante, quantunque orientata nel senso del materialismo storico, quindi dell’estetica del “realismo socialista”,  adottato ufficialmente dal Comitato centrale del partito sovietico nel 1932 in opposizione alle altre tendenze artistiche, tutte da contrastare come “formaliste”, idealiste e borghesi, che si erano sviluppate internazionalmente dopo l’impressionismo - incluso anche lui.[3]
In un certo senso potrebbe anche apparire con evidenza immediata che, ad esempio, la "merda d'artista" in scatola di Piero Manzoni è un riflesso prodotto da questa società in putrefazione e dunque da respingere.
Tuttavia, altrettanto facilmente, potremmo chiederci se non era precisamente questo nostro giudizio ciò che tale opera intendeva non solo suscitare ma soprattutto dimostrare con i fatti, ossia in una forma visibile (immagine) e tangibile. Non vogliamo dire che precisamente questa critica era nelle intenzioni dell’artista, solo che, guardando quella scatoletta  esposta sul piedistallo della Tate Gallery, noi ci vediamo proprio tutti i riflessi e i rispecchiamenti di una società costretta ad esprimersi in tal modo, e proviamo un grande godimento.[4]



In ogni caso questi  riflessi e rispecchiamenti della società nell’arte non sono sempre meccanici e passivi [5], e fare un cernita profilattica di quanto la società produce non mette certo nelle condizioni di comprendere sufficientemente il fenomeno dell’arte nelle sue manifestazioni attuali, pur anche estreme o singolari [6]; che poi sono proprio quelle che ci mostrano e dimostrano, più chiaramente e indiscutibilmente di quelle tradizionali, il grado di dissoluzione sociale, l’avanzare della rivoluzione e la necessità del comunismo.
Cosa farsene infatti, in termini di conoscenza pratica, di una scienza medica che, ad esempio, aborrisce osservare i parassiti o le modificazioni genetiche?
Anche se formulare certi giudizi contro tutta la canaglia borghese può costituire un “piccolo motivo di soddisfazione”, ed è giusto affermare il principio della natura collettiva dell'espressione artistica contro l'artista singolo che prende in giro il mondo mettendo merda in una scatola [7], il discorso è profondamente sbagliato qualora si risolva nella scelta di una posizione. Perché, se ancora non l’abbiamo detto, sia chiaro che così come non ci schieriamo da una o dall’altra parte nel dualismo tra scienza e arte, tanto meno ci schieriamo tra i fautori del realismo o del cosiddetto formalismo come di qualunque altra tendenza artistica generata in questa società, dalla quale siamo certamente fuori, senza avere però ancora dei nuovi paradigmi estetici.

Realismo

Abbiamo dunque qui un articolo che si contrappone ad un convegno stalinista sull'arte e la letteratura, ma concorda con i russi che non si può lasciare l'artista fare il piccolo borghese e manifestare i suoi pruriti artistici, ed essendo l'Arte un problema di partito deve essere dunque condotta sotto il controllo del partito proletario.
Enunciata così dagli stalinisti, la linea del partito è presto detta: “realismo socialista”[8], ed è anche presto fatta: accademismo, tradizionalismo.



Non c’è alcuna svalutazione in questa definizione, a cui ricorriamo unicamente per posizionare questo “stile” ufficiale di partito lungo una ideale linea evolutiva delle arti visuali, e che qui sta a segnare un arretramento verso quei modelli ottocenteschi convenzionali ispirati ad un umanitarismo ideale, dunque di nuovo simbolizzante, piuttosto che a quella attenta osservazione e conoscenza della realtà offerta dal movimento del Realismo francese nato nella scia delle rivoluzioni del ’48.[9]
Un esempio di questo lo abbiamo già visto nel Funerale ad Ornans di Courbet, nel quale non vi era nulla di trascendentale o sublime: solo una parte del corteo orizzontale di una specifica comunità umana che si ritrova per commemorare un suo membro, morto di recente.
Certo, qui non è messa in opera alcuna enfasi da partigiano, nessun gesto eroico, nessun pathos romantico, nessun incanto poetico, nessuna illusione: è solo una cerimonia per la prosaica morte di un uomo, che comunque resta sempre qualcosa di più della morte di un cane...

Già nel primo dopoguerra si era assistito ad un recupero della tradizione, del classicismo e della fedeltà figurativa che definisce questo periodo come quello di un “ritorno all’ordine”. E’ una corrente che prende le distanze dagli estremismi delle prime avanguardie, e alla quale non si sottraggono neppure alcuni artisti che ne erano stati protagonisti. Le linee generali del realismo e del modernismo, pur mantenendosi distinte, hanno modo di influenzarsi reciprocamente per offrire infine, negli anni ‘30, una sorta di “stile internazionale”; e saranno particolarmente tali forme di un classicismo ibridato di razionalismo modernista ad essere adottate dai paesi occidentali che rispondono alla crisi del ’29 con i quattro i New Deal: rooseveltiano, staliniano, mussoliniano e hitleriano. E il fatto che i 4 New Deal, nessuno escluso, producessero tutti una medesima concezione artistica fornirebbe materiale per la definizione del formarsi di un unico “stile imperialista”.[10]
Negli anni del secondo dopoguerra la linea del realismo avrà una coda garantita dai partiti nazionalcomunisti, che nel corso della guerra fredda provocherà dibattiti e solleverà questioni nei confronti degli elementi “formalisti “ che convivono in un medesimo ambiente ispirato all’intellettualismo organico (d’influenza gramsciana, per intenderci, cioè vicinale ai partiti delle sinistre istituzionali). Si registrano scontri e dispute anodine che si spegneranno del tutto al finire degli anni 60 senza altri lasciti significativi per l’arte se non qualche nome di artista che nel frattempo, tra segreterie e sindacati, aveva fatto fortuna al mercato.[11]
E’ all’interno di questo semplificato scenario che dobbiamo collocare il “recente dibattito” commentato nell’articolo di Programma del 1964, dal quale estraiamo un brano contenuto nel paragrafo evidenziato come Criterio di artisticità: 

La rappresentazione della realtà, quanto più è veridica e profonda, quanto più penetra l'essenziale, il tipico nei fenomeni e nei fatti, tanto più conferisce ai prodotti artistici il valore e il significato di "opere d'arte". Il criterio di artisticità delle realizzazioni artistiche risiede nella loro idoneità a rispecchiare in modo profondo e veritiero la realtà nel suo processo di sviluppo, nel suo divenire storico. Resta al di sotto di un tale realismo ogni naturalismo che si basi su una fotografia "obiettiva" della realtà; come pure ogni tendenza ad autonomizzare le forme in una sfera a sé stante, in un giuoco di linee, colori, note, parole, ecc., astratte (formalismo). Già a base della concezione estetica della Grecia schiavista, era posto il principio che l'arte consiste nell'imitazione della viva realtà. Tanto per Platone quanto per Aristotele, l'arte è mimesi, rispecchiamento della realtà. Ma, per stabilire in che modo questa riflette la vita reale, è necessario comprendere il meccanismo di sviluppo di questa vita stessa, il processo storico reale. Così, nelle società divise in classi, la lotta delle classi rappresenta il motore di questo meccanismo; la base su cui nascono e si sviluppano le idee stesse. L'epopea (società schiavista), la chanson de geste (società feudale), il romanzo (società borghese), sono le forme letterarie che meglio corrispondono ai bisogni delle rispettive classi dominanti.
Purtroppo sappiamo che i fenomeni non coincidono con le leggi che li regolano, e tanto più questo vale per le immagini di tali fenomeni; così come rappresentare un paio di operai industriali non dice nulla sui reali rapporti sociali che regolano la loro esistenza, neppure un ritratto di Marx dirà qualcosa di significativo sul comunismo, o quello di Lenin qualcosa di considerevole sulla rivoluzione d’ottobre.
Allora ciò che nel quadro si rappresenta non riuscirà mai ad esprimere un rispecchiamento “profondo e veritiero della loro realtà nel suo processo di sviluppo storico” senza metterci quel “più di una fotografia”, che però si risolve solitamente con l’enfasi autodichiarativa; un espediente surrettizio, didascalizzante, che Engels sconsigliava di utilizzare addirittura anche per la poesia a tesi.[12]

 

Vediamo anche che l’impianto e le premesse partono dal terreno del materialismo ma, per rispondere alla domanda metafisica “che cosa è l’arte?”,  finiscono per ricadere sul terreno metastorico richiamando l’autorità degli Antichi e la Tradizione. Sostanzialmente un paradigma assolutizzato da brandire contro i Moderni, di nuovo in disputa con gli Antichi - un paradigma tra l’altro eclettico, frutto artificiale delle contingenze... (russo staliniane)...
E’ chiaro che il giro argomentativo aveva come mira esclusiva la negazione di quell’arte che si “autonomizzava” - esprimendosi  “in un giuoco di linee, colori, note, parole, ecc., astratte (formalismo)” - e quindi gli si doveva contrapporre un’affermazione positiva, tanto più facilmente condivisibile quanto più assiomatica e radicata nel senso comune.
Sarebbe bastato evitare di toccare alcuni punti per offrirci una argomentazione passabile, che invece ci risulta inaccettabile, dato che a noi sembra qualcosa che potrebbe anche svolgersi per dire che, poiché fin dai tempi  della Grecia schiavistica esistevano lo Stato, la famiglia, la proprietà privata e il danaro, queste forme rappresentano i principi e le basi della concezione sociale dell’umanità.
Per altro, la condanna di una “autonomizzazione” dell’arte impedisce di poter scorgere questa tendenza come la possibile risultante in arte (appunto un rispecchiamento) del movimento reale di autonomizzazione che ha portato la forma Danaro (dei Greci) a liberarsi dalle sue parvenze naturali per mostrarsi nella sua forma più sviluppata e superiore di Capitale (oramai completamente autonoma e indifferente all’uomo).
La nostra è solo una ipotesi euristica, appena intuita e non approfondita; che però ci sembra poter spiegare il presentarsi di questo (deprecato) fenomeno di “autonomizzazione” dell’arte non oggettiva solo ad un certo grado di sviluppo della società capitalistica, e che pone il problema dell’esistenza stessa dell’arte (e degli artisti) appunto in una formazione sociale che ha esaurito tutte le forze produttive sulle quali finora aveva contato.[13]
Non crediamo ci sia bisogno di dire che con ciò non si intende raccogliere dei crediti per il formalismo o benemerenze per i suoi rappresentanti che, assieme al realismo e ai suoi fautori, subisco e sono trascinati tutti in certi problematici frangenti estetici dallo sviluppo reale dei rapporti sociali.

Nel “recente dibattito” è scritto anche che “…per stabilire in che modo questa (arte) riflette la vita reale, è necessario comprendere il meccanismo di sviluppo di questa vita stessa”. Certamente.
Tuttavia ci chiediamo: può forse un baco da seta comprendere il meccanismo che presiede alla creazione del suo bozzolo? Eppure il poeta “Milton, produsse Il Paradiso Perduto, per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta. Era una manifestazione della sua natura” - spiega Marx senza concederci alcun appiglio per trasformare le sue parole in alcunché di riprovevole.[14]
A Milton, come a Balzac, Marx non richiede di “sapere” perché fanno ciò che la loro natura gli impone di fare: non era mica un maestrino dalla penna rossa.

Nella lettera da Londra del novembre 1885 a Minna Kautsky, Engels scrive: "Io non sono affatto nemico della poesia a tesi (non parla della poesia in generale, ma di un particolare tipo di poesia, che si svolge con un intento precostituito)... ma ritengo che la tesi deve scaturire dalla situazione e dall’azione, senza che vi si faccia cenno espressamente, e il poeta non è tenuto a mettere nelle mani del lettore la soluzione non storica futura dei conflitti sociali, che egli rappresenta"[15]… La tesi, se la voglia, deve scaturire del tutto conseguentemente dai fatti, non questi da quella…
Se “rispecchiamento” deve esserci bisogna lasciare che la realtà possa  riflettersi nello specchio particolare dell’autore - che magari può anche essere uno specchio deformante, avere una superficie alterata dall’ideologia… ma la deformazione è pur sempre la forma di una realtà particolarizzata dell’epoca, e ce ne informa con le sue proprie immagini dalle quali, per quanto deformate esse siano, è sempre possibile per la “critica” risalire al referente veridico posto fuori da ogni specchio… Insomma: l’artista può fare “liberamente” il suo lavoro se la “critica” o la rivoluzione fanno il proprio.
Altra cosa, magari, è parlare chiaramente di azione di propaganda da svolgere con tutti i mezzi di comunicazione ecc..
Possiamo anche dire che questo è appunto il caso posto da Engels, perché la poesia a tesi o di tendenza è qualcosa che si aggira nel campo della propaganda per cedergli le proprie capacità immaginative (i media dell’arte e della propaganda magari sono gli stessi, diversi sono gli scopi e le strategie per raggiungerli).
Comunque sia, Engels consiglia anche al “romanzo socialista” di attenersi semplicemente alla realtà dei fatti e dei rapporti: se questi vi sono fin dal principio e vengono messi in grado di agire organicamente, produrranno il risultato voluto, e soprattutto con maggiore efficacia; perchè così come si mostrano nel loro naturale sviluppo si svilupperanno come naturale prodotto della coscienza stessa del fruitore...

Formalismo

Rispetto al formalismo, crediamo di aver già detto qualcosa passando per il Realismo.
Ci sarebbe da fare qualche considerazione  riguardo poi la polemica di Trotsky contro il “formalismo” (che ricordiamo si svolge dopo la rivoluzione, durante la dittatura del proletariato alle prese con l’analfabetismo ecc.), della quale l’articolo citato riporta le parole di Sklovski che dichiara apertamente che per  il formalismo l’arte consiste in pure forme: la sua essenza è la forma e “l’arte è sempre stata libera dalla vita”. Che ciò non sia vero e che Trotsky, in quelle ricordate circostanze storiche, si sia scagliato contro queste  enunciazioni è del tutto comprensibile; ma quando mai i comunisti hanno creduto alle parole di chi descrive sé stesso e le sue intenzioni?
Per altro, l’affermazione che l’arte è un puro gioco di forme, è una risposta metafisica alla domanda metafisica che abbiamo già incontrato: che cosa è l’arte? La domanda non metafisica avrebbe dovuta essere: come è l’arte? e allora, forse, la definizione di Slovski sarebbe potuta apparire adeguata.
Trotsky dirà pure che la rivoluzione non esiterà ad attaccare una qualsiasi tendenza artistica che ”a prescindere dai suoi risultati sul piano della forma” eccetera… Ed è un “a prescindere” con il quale si riconosce indirettamente un’autonomia ai risultati formali dell’arte - anche se non autonomia dalla vita e da altri “elementi di decomposizione nell’ambiente rivoluzionario” che certe tendenze artistiche possono portarsi, e senz’altro si portano dietro.
Ora si dà il caso che all’epoca del dibattito riportato dall’articolo di Programma, la “situazione” reale aveva condotto gran parte dell’arte visiva occidentale nell’astrazione (il disprezzato formalismo).
Inoltre nel corso del mezzo secolo che la separava dalle sue prime fondanti manifestazioni l’arte astratta si era quasi interamente sviluppata su di un nuovo paradigma. La sua “tesi”, o “tendenza”, non teneva più in considerazione la realtà esterna all’opera ma si volgeva all’opera stessa come realtà cui immediatamente riferirsi.
Dunque la soluzione bell’e pronta che il pittore intendeva “mettere sotto gli occhi del pubblico” non era quella engelsiana di un mostrare o non mostrare “la soluzione non storica futura dei conflitti sociali, che egli rappresenta” ecc., ma, più pertinentemente, la soluzione storica realizzata dei conflitti dell’arte con la realtà esterna, dell’opera oggettivata e resa reale come tutti gli altri oggetti del mondo.
La pittura, intesa tradizionalmente come riproduzione analogica della realtà circostante, di cose tridimensionali e esterne al sé, proprio come uno specchio rivolto sulla realtà, a un certo momento si trova davanti ad uno specchio rivolto verso se stessa; e così si  pone il problema del proprio essere in quanto pittura, in quanto quadro, in quanto immagine dipinta nella sua propria realtà bidimensionale; allora modifica i suoi propositi: non si limiterà più alla somiglianza delle cose ma a porre il dipinto stesso come cosa fatta e reale.
Anche riassunta e detta così semplicemente, la tendenza astrattista o formalista sembra rispecchiare pienamente la nostra descrizione generale della società capitalistica come quella più “autoreferenziale” di ogni altra società precedente. E difatti tale autoreferenzialismo non è neppure esclusivo della contemporaneità [16] ma appartiene all’intera epoca borghese moderna... Ecco qui un quadro del 1670.



Non è il retro di un quadro ma un dipinto del pittore fiammingo Cornelis Gijsbrechts, che ha per oggetto, appunto, il retro di un quadro su tela con tanto di cornice…[17]
Ora, è intuibile che se capovolgiamo il dipinto vedremo sul retro la stessa immagine del fronte: non vi è null’altro; lo sguardo rimane imprigionato nell’opera e dal quadro non esce.
Qualche eminente storico dell’arte [18] ha posto proprio quest’opera a conclusione di un  procedere storico verso l’invenzione del quadro.
A noi non interessano le implicazioni e le interpretazioni (magari di ordine morale, come la vanità o anche la rappresentazione del nulla, ecc.) che hanno condotto il pittore a questa immagine pittorica delucidante della pittura stessa; ci interessa invece mettere in rilievo che fin dalla  nella metà del 600, mentre la borghesia è nel pieno della propria ascesa, si presenta l’immagine stessa di un processo di reificazione dell’opera di pittura che si problematizza e, facendo riferimento unicamente al sé, imbocca una via di autonomizzazione [19], che forse si potrebbe seguire anche osservando, sotto questo rispetto, il trittico Gand di Van Eyck del 1432, la Madonna del Libro di Vincenzo Foppa del 1464, il ritratto velato del Cardinale Archinto di Tiziano del 1558... e chi sa quali e quante altre opere ancora.
Questo cammino verso la soggettivizzazione dell’immagine sembra proprio procedere e maturare assieme al mondo borghese, fino a mostrarsi apertamente verso la fine dell’ottocento in un quadro dello spagnolo Pere Borrell del Caso.



E’ un’opera accademica che ci mostra in trompe l'œil  l’immagine di un ragazzo uscirsene pieno di sorprendente meraviglia dalla cornice del quadro in cui era rappresentato. (fig. in alto a destra)
La qualità di questo dipinto ha un valore più illustrativo che pittorico [20]; e, a credere nell’autore, l’immagine dichiara di voler sfuggire al giudizio della critica più che alla prigionia della superficie...
Ma, in definitiva, ora e qui tra l’immagine e il supporto si sancisce la rottura di un patto e stabilirsi per l’avvenire i termini del loro divorzio. Con tutto ciò, l’immagine inganna sé stessa e il proprio autore: il loro è destinato a rimanere un proposito irraggiungibile, perché fuori dal quadro dovranno procacciarsi entrambi nuovi elementi per sopravvivere; e vedremo che lo faranno anche a costo di rinunciare a sé stessi – mallevadrice proprio la “critica”, che accorre a garanzia degli adempimenti delle loro obbligazioni nei confronti dell’arte… e del mercato dell’arte.
L’immagine che ha abbandonato il quadro (la superficie) mette l'arte visiva nella situazione problematica di sbrigarsela da sola: ora può contare solo su sé stessa... – proprio come un qualsiasi divorziato alle prese con calzini scompagnati.

 
In seguito a questo abbandono (e ad altri problemi che questo passo decisivo comporta) la pittura produrrà opere che dichiarano fin dall’inizio di non “significare” null’altro da ciò che nel quadro è visibile e tangibile dai sensi: “composizione II”, “composizione suprematista bianco su bianco”, e così via.



E la vicenda di questo divorzio potrebbe anche continuare con altri episodi dell’arte, che magari troviamo nel Minimalismo americano degli anni sessanta – che forse ci racconta anche delle peripezie dell'immagine della figura umana dopo che si è separata dall’inganno della superficie prospettivizzata - come possiamo vedere in due tavole che riguardano il lavoro di Robert Morris.



Il processo che ha subito il quadro di Cornelis Gijsbrechts per arrivare a tanto sarà lungo più di due secoli, e dovrà metabolizzare la bolla speculativa dei tulipani (forse già elaborata con questo dipinto del retro) e aspettare lo sviluppo della produzione industriale e la vittoria della merce, ma soprattutto passare indenne l’invenzione della fotografia e la scoperta dei raggi Röntgen prima di liberarsi definitivamente da ogni cruccio rappresentativo della natura esterna e della figura umana; prima che il quadro prendesse a parlare per dirci che a lui i rapporti con gli uomini non lo interessano, ma quello che lo riguarda sono i riferimenti, i rapporti di valore e di scambio con gli altri quadri ecc.[20] (e così rendere sensibile l’esistenza e la consistenza di codici iconici, formali e formalizzanti per ogni tipo di comunicazione e, anche per questa via, condurre alle recenti scienze della linguistica e della semiologia moderne che intrecciano diverse branche della conoscenza attuale preparando l'unificazione della futura).
E questo ci sembra rappresentare in qualche modo il compimento pratico dell’opera dell’arte e dei suoi prodotti come arte e prodotti dell’epoca capitalistica; è la loro ultima rifinitura come merce, la loro sussunzione formale  e reale al modo di produzione capitalistico che li costringe a condividere le vicende e il destino stesso del capitalismo, cioè a ricadere tra gli elementi che subiranno il capovolgimento rivoluzionario della prassi.
Chiacchiere di altro genere, del tipo: come la vedo io…, intendo esprime la mia…, questo vuole significare…, ecc., non ci riguardano e le lasciamo volentieri a tutti coloro che preferiscono farsi delle opinioni personali da mantenere in serbo e da cui attingere.
Certo, avremmo potuto raccontare questi aspetti dell“emancipazione” della pittura e del suo oggetto in altri modi; ad esempio seguendo il filo della storia dell’arte prendendo le mosse dalla cesta di frutta di Caravaggio, oppure tramite la linguistica, facendo muovere la pittura sull’asse metonimico piuttosto che su quello metaforico, o anche dall’estetica filosofica ecc.; ma quello che per noi è sostanziale e irreversibile è di trovare oggi l’arte e l’opera sul terreno concreto dei rapporti di produzione - e quindi dello scontro sociale - priva di ogni tipo di aureola sacrale che le faccia da ciambella di salvataggio nel prossimo salto rivoluzionario.
Oggi, anche se non abbiamo più la situazione storica e i “compiti elementari” che la rivoluzione del 1917 ha presentato, rimaniamo contrari ad una indifferenza nei confronti delle correnti artistiche così come ad ogni “convivenza pacifica” con altre teorie e dottrine sociali; piuttosto, a tutte le forme d’arte realmente esistenti opponiamo la “nostra” forma di arte più compiuta e definitiva: la critica della rivoluzione, condanna presente e futura della società capitalistica, la quale avanza svolgendo praticamente il suo lavoro di dissoluzione anche degli assiomi e dei paradigmi propri alle forme d’arte sorte e variamente connesse al modo di produzione capitalistico.
E per assecondare questo suo movimento, non ci interessa salvare né osservare l’oggetto particolare “che la storia ha conservato” (e trasformato in merce) ma il processo materiale e storico che lo hanno prodotto e che sotto le spinte della rivoluzione incessante e sempre vittoriosa sta portando anche l’Arte verso l’unificazione del lavoro sociale e della conoscenza umana.
A noi non importa difendere, favorire o addirittura promuovere una qualsiasi espressione o tendenza artistica particolare: la storia se le porta dietro come sue manifestazioni naturali.
Si può guidare la classe rivoluzionaria non certo il processo storico.
Cioè, noi siamo qui per seppellire Cesare, non per lodarlo.


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[1] - Il recente dibattito sull'Arte e sulla Letteratura in Russia, da "Il programma comunista" n. 5, 6, 7 e 8 del 1964.
[2] - E’ inutile dire che in questa nostra galoppante e disordinata incursione nell’arte, l’orientamento si intende fissato da tutti i punti acquisiti definitivamente dalla nostra dottrina; pertanto, ove pieghiamo o deviamo da questi siete pregati di avvertici e provvederemo a tornare indietro o a riposizionarci sui giusti binari.
[3] - Per quanto valga, sia detto per inciso che tutte queste ultime, nessuna esclusa, miravano alla distruzione nell’arte delle tendenze borghesi e conservatrici, e i cui esponenti avevano avuto, prima, durante e dopo la rivoluzione di Ottobre, trascorsi nihilisti, anarchici, socialisti o comunisti. E parliamo del divisionista Signac, come del musicista Satie, del cubista Picasso come del suprematista Malevic, del dadaista Tzara come del surrealista Breton; praticamente di tutta l’avangardia storica succeduta all’avanguardia rappresentata dal pittore realista Goustave Courbet, membro e commissario della Comune.
[4] - E’ certo che chi concepisce il procedere dell’arte e della società secondo un andamento progressivo e continuo, non proverà altrettanto, e si priverà così di un tipo di godimento che invece noialtri possiamo aggiungere a tutti  quegli altri particolari godimenti che proviamo per l’arte di tutti i millenni dell’uomo.
[
5] - Nell’arte classica si registrano moltissimi casi di critica all’ufficialità e alla committenza – la più nota è quella di Michelangelo per il Giudizio. Ma moltissimi elementi di dissenso da parte degli artisti sono riusciti a insinuarsi nelle loro opere, e si rilevano con difficoltà o rimangono enigmatiche anche alla lettura più attenta dei conoscitori.
[6] - W.Benjamin, op. comp.  Vol VI. Appendice a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pag. 271]: “La massa è una matrice, dalla quale esce attualmente rinato ogni comportamento abituale nei confronti delle opere d’arte. La quantità si è convertita in qualità: la partecipazione di masse sempre più grandi ha determinato un modo diverso di partecipare. L’osservatore non deve lasciarsi ingannare dal fatto che questa partecipazione si manifesta dapprima in forme screditate. Ci si lamenta con lui del fatto che le masse cercano nell’opera d’arte solo lo svago mentre il cultore d’arte si accosta ad essa con concentrazione. Per le masse l’opera d’arte sarebbe dunque un’occasione di intrattenimento, mentre per l’amante dell’arte sarebbe oggetto di raccoglimento“. Cosa poi vi si raccoglie è altra faccenda.
[7] - Se ci riesce, intanto è la dimostrazione palese che con la società questo artista condivide le medesime oggettive determinazioni storiche che hanno preparato società e artista a riflettersi l’uno nell’altra: empatia. E sia pure chiaro che la situazione storica non presenta ancora momenti rivoluzionari, e i compiti del partito non possono avere nulla di pratico se non la conoscenza critica della realtà, e la preparazione.
[8] - Una “estetica” sorta durante l’attuazione del primo Piano Quinquennale per farne la propaganda tra le masse russe e fatta propria dai partiti comunisti nazionali fautori dei fronti unici antifascisti, ha un respiro troppo corto e un alito opportunista, per non suscitare tutta la diffidenza dovuta ad una “estetica d’occasione”.
[9] - C’è da dire che, fatte le dovute differenze, anche l’affermazione della linea non oggettiva, astratta e “formalista”, genera propri accademismi e proliferare di produzioni scolastiche, essendo particolarmente incline al decorativismo e più conforme ai processi industriali.
[10] - Per i curatori di alcune mostre internazionali allestite dopo il 1990 sul tema dell’arte dei totalitarismi, il periodo del New Deal americano non ricadrebbe in questa categoria morale o etica - non certamente estetica – che include anche la Cina di Mao.
[11] - Sul concetto generale di “realismo” in arte, come corrente artistica dell’800 o come “realismo socialista”,  contiamo di soffermarci in un secondo momento; al momento ci limitiamo a mettere in salvo qualche riflessione al riguardo.
[12] - F. Engels, lettera a Minna Kautsky, novembre 1885. - Ma nella scrittura c’è una dimensione temporale che consente di scandire i momenti del divenire storico... L’immagine pittorica non ha questa risorsa, che invece verrà con l’immagine filmica...
[13] - Sappiamo infatti che un problema “sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione”; ebbene, la soluzione è pronta e la dissoluzione di questa società ce lo conferma ogni giorno. Anche in arte, se il problema della sua autonimazzazione si è posto, l’arte da parte sua risponde con uno sviluppo nel quale si riflettono le dissoluzioni della sua vecchia forma. Diversamente, è come se  ancora andassimo a cercare l’oro o le sue fattezze per svolgere operazioni finanziarie che oramai si generano da sole in formati elettronici.
[14] - K. Marx, Storia delle Teorie Economiche, I La teoria del plusvalore da William Petty a Adam Smith, ed. Einaudi, Torino 1954, pag. 388.
[15] - F. Engels, lettera a Minna Kautsky, novembre 1885.
[16] - …che ne chiarisce il valore. Vedremo più avanti che è anche in tal modo che la pittura porta a compimento la serie delle reificazioni per trasformarsi in merce…
[17] - Cornelius Norbertus Gijsbrechts c. 1670, Il rovescio di una pittura incorniciata, olio su tela cm.66,4x87, National Gallery of Denmark, Copenaghen.
[18] - Victor I. Stoichita, L’invenzione del quadro (1993), il Saggiatore, Milano 1998.

[19] - Così conclude l’autore a conclusione del volume citato: “Il quadro rovesciato di Gijsbrechts chiude un’epoca, quella che assiste alla nascita dell’arte in quanto problema. Ed è questo il motivo per il quale la ‘chiusura’ attuata dal procedimento di Gijsbrechts, ben lungi dell’essere ‘definitiva’, si propone – ecco un ultimo paradosso - come il punto finale di un atto inaugurale. Grazie a quell’esperienza estrema il quadro ha finalmente preso piena coscienza di se stesso: del proprio essere, del proprio nulla”. Op. cit., pag. 277.
[20] - Curiosamente il dipinto è del 1874, lo stesso anno in cui nasceva l’impressionismo: mentre la pittura prendeva possesso di sé, il quadro di del Caso decadeva nell’anacronismo.
[21] - K. Marx, Capitale, 1.1 pag. 97: “Se le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare gli uomini. A noi, come cose, non compete. Ma quello che, come cose, ci compete è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre proprie relazioni come cose-merci. Noi ci riferiamo reciprocamente l’una all’altra soltanto come valori di scambio.”

IMMAGINI
In alto - 3 fotogrammi dal film di Fritz Lang
Colonna 1, dall'alto:
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Piero Manzoni 1961, l'artista con una delle 90 scatolette metalliche contenenti ciascuna 30 grammi della sua propria produzione privata. Vedi Merda d’artista in Wikipedia.
- Ivan Bevzenko 1961, Young Steel Workers, olio su tela cm80 x 156:
- Michael Lantz 1938-42, L’uomo controlla il commercio, Washington D. C., all’esterno della Federal Trade Commission;
- Wojciech Fangor 1950, Figure (i lavoratori e la borghese), olio su tela cm.100x125. Museum Sztuki, Lodz (Polonia);
Colonna 2, dall'alto:
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Cornelius Norbertus Gijsbrechts c.1668-1672, Il rovescio di una pittura incorniciata, olio su tela cm.66.4x87, National Gallery of Denmark, Copenaghen;
- Vincenzo Foppa 1464-1468, Madonna del Libro, tempera su tavola cm.37,5x29,6, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano;
- Pere Borrell del Caso 1874, Fuggendo dalla critica, olio su tela cm.76x63, Collezione Banco de España, Madrid;
- Robert Morris 1961, Untitled (Box for Standing;), fotografia che mostra l'artista stesso all'interno dell'opera (legno, cm.190x62x28)
- Vasilij Kandinsky 1909-10, Sketch for Composition II, olio su tela cm.97,5x131,2, Guggenheim Museum, New York;
- Kasimir Malevitch 1918, Quadrato bianco su fondo bianco, olio su tela cm. 79,4 x 79,4, Museum of Art, New York;
- Robert Morris 1964,  Site, performance;
- Édouard Manet 1863, Olympia, olio su tela cm.130,5×190, Musée d'Orsay, Parigi

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