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Le controverse storie di Giuseppe
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 6 dicembre 2012
UNA SETTIMANA DI BONTA'
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GIUSEPPE KARESTIA
Faraone sognò quel doppio sogno di rigoglio e micragna, con sette vacche e spighe di grano.
Giuseppe il Preveggente lo interpretò e provvide.
Ma poiché questo sovrintendente non giudicava i raccolti mai abbastanza ricchi, per non dipendere dalle provvidenziali piene del Nilo, fece scavare pozzi e canali, e ordinò che una corvè di centomila carri prelevasse da quel fluente effluvio di vivifico marciume i depositi di limo con cui concimare i campi anche remoti, e ancora dissodare a coltura i margini occidentali dei deserti.
Per tale servizio e far tornare i conti dell’impresa, Giuseppe riscosse il quinto d’ogni raccolto, per ammassarlo poi nei depositi imperiali in previsione della carestia.
Nutrita in questo modo la Terra raddoppiò i raccolti; le messi vennero su ricche, e crescevano numerose le spighe che fino a sette ne spuntavano sopra ogni stelo curvato da chicchi grassi e pieni.
Ovunque nei campi risuonavano rumori alacri e richiami operosi; e ad ogni nuova semina e raccolto si innalzava un gloria per Hapi e pel dio Sole - energico dispensatore d’ogni tripudio organico.
Presto i granai d’ogni città si riempirono all’orlo; e di nuovi se ne costruirono nel centro delle caserme e dentro i templi, protetti agli imbocchi da botole di bronzo irsute di guglie aguzze e mortali, che parevano idoli leviatani sbadiglianti al cielo.
Per sette anni l’armata idraulica cavò limo dal Fiume, e per tutto l’Egitto la terra produsse a piene mani. E a piene mani gli esattori raccoglievano il quinto, ch’era anche lui cresciuto di sette volte cinque.
Senza necessità oramai i drappelli dei Riscossori correvano il Paese per ringozzare i granai.  Ma chi potrà mai fermare la carica dei Dignitari, con militi Bocconiani e Scribi panzuti al seguito, quando tutti assieme si muovono per salvare la Patria?
Sette anni durò quell’incessante prendere dalla terra a dagli uomini.
Ma con l’ultima aratura del settimo anno si misero nei solchi i semi per l’estremo saccheggio della zolla - ché quando poi crebbero i biondi mannelli ingemmati, più nulla rimaneva in quel terreno, sucato d’ogni linfa germinale dopo talmente dare a chicchi grassi e pieni.
Fatta la mietitura, soltanto i contadini - che avevano masticato quel terriccio per ricavar presagi - videro nei covoni cadaveri indorati, e all’orizzonte il rogo della terra.
Esaurito dalla manbassa dei carri limacciosi, neppure il Nilo nutritore quell’anno li soccorse; ch’altro non dava ormai che sabbia giallastra e dilavata rena, buona neppure a fermare l’invasione delle stoppie spinose, stramaledette da contadini ignudi e rattrappiti.
Dopo l’ultima pioggia, la terra ridotta a calce e sale, si era cotta a cristallo sotto il martello del Sole, e dura all’aratro tratteneva in superficie gli scarsi liquidi pluviali per trasformare i campi in acquitrini che popolarono l’Egitto di rospi inappetenti e tafani sanguinari agli occhi e alle ascelle di uomini e bestie.
Anche i lombrichi - aeratori e drenatori impagabili dalle rendite agrarie -, s’erano accucciati profondi nelle pieghe più tenere delle argille, lontano da quella crosta indurita, distanti da rizomi e radici sempre più scarse e stente e brutte a vedersi persino nei sogni umidi delle talpe.
Alla prima siccità puranche i passeri, gli scarabei e i mille colorati insetti della campagna, si disseccarono tutti nei loro stessi involucri, in morti silenziose e non proficue  quando manca l’acqua per preparare la gran poltiglia utile agli infiniti chimismi della zolla.
Con l’ombra nera degli ultimi corvi, dalle campagne più mute del lutto, se n’era volata via ogni speranza.
E mentre il sole di mezzogiorno sciagurava i campi dell’Egitto, ecco che dalle sponde del Nilo, senza affrettare il passo, se ne salì Karestia con sua compiaciuta prole.
Come una mendica trionfante - priva persino  dell’ombra - s’accovacciò restia ai piedi dei granai stracolmi, e benedicendo il giusto guadagno di Faraone e dei Sovrintendenti, stendeva la mano a prendersi in macello chi non portava in bocca la moneta.
Quindi disse, chiamando all’attenzione zampettanti coaguli di cimici e mugoli di mosche sciamanti tra masserizie secche e scoli di rigagnoli, disse:
- Miei carissimi pargoli, figliole dilettissime, il sogno inviato a Faraone è stato la trappola squisita nella quale far cadere la solerzia di Giuseppe, che per riempire granai ha dissipato la Terra preparando il mio banchetto e quello dei mercanti. Proprio da questo ha inizio l’anabasi di tutto un nuovo corso. Poiché - non lo dirò due volte: mai la merce sfamerà l’uomo ! Ma questo gran segreto tenetelo per voi, ché vi conforterà il cammino, fruscianti sorelline -  concluse infine in un sussurro fetido.

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