Signori,
uno spaventoso disastro ha colpito molti vostri concittadini: abbandonati in mezzo ai marosi, su una fragile zattera, essi si sono trovati, per tredici giorni, in mezzo agli orrori della disperazione. La posterità stenterà a credere alle loro tribolazioni, specialmente quando si verrà a sapere in che modo i contemporanei si sono comportati verso di essi.
Soltanto alcuni di quegli sventurati sono sfuggiti, in modo veramente miracoloso, alla morte. Segnati dal marchio della sventura e votati al dolore, presso qualsiasi popolo civile e anche barbarico, questi uomini sarebbero stati ritenuti, in qualche modo, sacri. Qualunque terra sulla quale avessero posto piede, e che non avesse offerto loro compassione e assistenza, sarebbe stata disonorata.
Ebbene! essi hanno riveduto la loro patria, sono ricomparsi in mezzo al popolo più sensibile e più generoso; e, tuttavia, per mezzo di scritti semiufficiali, si è persino rimproverato loro l'enormità della sventura patita e sono stati additati come motivo d'orrore e di ripugnanza.
E' stato addebitato ad essi, come un delitto, l'amarezza delle loro rampogne, e sono stati privati financo degli impieghi. Anch'oggi si vedono costretti a fare appello a tutte le loro forze infrante dalle enormi sofferenze per poter essere in grado di crearsi un'esistenza che pareva dover essere posta sotto la garanzia della generosità nazionale; mentre gli uomini che, per inettitudine hanno provocato il sinistro, o che per vigliaccheria o ingenerosità, l'hanno consumato, investiti di nuove funzioni di comando, insigniti di nuove decorazioni, han dato modo di far conoscere alle nostre lontane colonie, e al mondo intero in che modo la Francia sappia passar sopra le sventure, e in che modo punisca il tradimento e l'ingenerosità.
Ah ! se il nostro paese fosse colpevole di un simile attentato, bisognerebbe disperare di farvi allignare ogni generosa istituzione; perché per le nazioni, come per gli individui, il principio di ogni cosa nobile e grande risiede nella giustizia e nella Santa umanità.
Ma, affrettiamoci a dichiararlo, non si tratta della colpa di una nazione, bensì della colpa di uno de suoi antichi ministri, Dubouchage, il cui amor proprio si è trovato compromesso in questo funesto avvenimento con la scelta di funzionari ai quali il nostro destino con imprudenza era stato affidato.
Quanto più ingigantiva la nostra sventura, tanto più grave riusciva l'accusa contro l'inesperienza, l'inabilita e i pregiudizi di quel ministro.
Le nostre querele non potevano dunque se non importunarlo e stancarlo. Questa sua insofferenza ce ne ha fatti avvertiti nel modo più crudele. Non solo ci venne rifiutato ogni gesto consolatore, ma si è permesso che fossimo calunniati; si è tentato di renderci odiosi agli altri, e fummo costretti ad abbandonare il nostro ufficio.
In questo modo l'onore della Francia e ogni principio d'umanità furono sacrificati ad un miserabile sentimento d'amor proprio.
Per certo non chiediamo nè brillanti ricompense, nè fastosi onori; non presumiamo nemmeno di vivere a carico dello Stato; ma il più breve segno d'interesse, o anche di compassione, da parte del governo del nostro paese, sarebbe sufficiente a rimarginare le nostre ferite e a farci dimenticare le nostre sventure.
Siamo rimasti delusi, e non per dolerci vi rivolgiamo le nostre lagnanze, perché sappiamo che i diritti della sventura, titoli che il coraggio e la perseveranza accorda ad ogni cittadino da ogni evento che supera le forze dell'umanità, non sono scritti in nessun Codice, in nessuna Carta.
Per noi, in quanto privati, nulla chiediamo.
Ma a voi, Signori, a voi che siete i depositari degli interessi morali non meno che degli interessi materiali della nazione, spetta di vedere ciò che dovete fare in una simile contingenza, per l'onore nazionale.
Vedrete se non è vergognoso per il nostro paese che soltanto degli stranieri abbiano alleviate e soccorso infelici che si sono veduti messi in disparte e respinti dalla propria patria!
Ma ciò che costituisce un concreto diritto, un diritto scritto nella Carta, si è quello di chieder giustizia contro coloro che ci hanno vilmente e ignominiosamente abbandonati; contro coloro il cui dovere era quello di pensare alla propria salute se non quando l'ultimo uomo d'equipaggio fosse stato al sicuro, e che, peraltro, ad onta di un giuramento e dei doveri più sacri, hanno commesso la viltà di abbandonare in mezzo ai marosi, sopra qualche misera plancia, centocinquanta loro concittadini, per anticipare di qualche attimo la propria salvezza; contro coloro che, una volta rifugiatisi in un porto, non si sono poi ricordati e non hanno compiuto sforzo alcuno per i compatriotti che avevano lasciato a tu per tu con la morte, e pei quali un momento solo di indugio poteva costare la vita; contro coloro che hanno lasciato trascorrere molti giorni prima di pensare a inviarci soccorsi; che hanno persino ricusato aiuti offerti da generosi stranieri, e che dovevano essere responsabili dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini di tutte le vicende paurose provocate da quel ritardo funesto; contro coloro che, a dispetto di tutte le leggi divine e umane, hanno permesso il saccheggio dei relitti del nostro naufragio; contro coloro, infine, che insensibili all'onore nazionale, così come lo furono di fronte al soffrire dei loro compatriotti, permisero che lo straniero disprezzasse la nostra bandiera e le istruzioni del nostro Sovrano, al punto ch'esso rifiutò persino di consegnare la colonia, senza puranche protestare contro tale offesa.
Questa la giustizia che noi chiediamo e che giurammo di far valere a qualunque costo nel momento in cui vedemmo allontanarsi quelli che avevano giurato di salvarsi o di morire con noi; giuramento che rinnovammo in mezzo alle imprecazioni della disperazione e sui cadaveri dei più sventurati, vittime dell'orribile egoismo che vi denunciamo.
Sul capitano di vascello, sul comandante marittimo della spedizione deve pesare la terribile responsabilità di quell'avvenimento. Costui è stato tradotto, ci dicono, dinanzi ad un consiglio marittimo e condannato ad un certo periodo di detenzione. Ma tale condanna non si confà nè alla legge ne all'onore della nostra marina, ne può piacere alle anime dei nostri sventurati compagni.
Se quel capitano fosse stato condannato secondo il rigore delle leggi, sarebbero stati applicati gli articoli 35 e 36 della legge del 21 agosto 1790, i quali dicono:
Art. 35. - Ogni comandante di una nave da guerra, colpevole di avere abbandonato, in qualsiasi circostanza critica, il comando del proprio legno, o di aver fatto ammainare il pavese mentre egli era in condizione di potersi difendere; sarà condannato a morte. Alla stessa pena sarà condannato qualsiasi comandante colpevole, dopo la perdita della propria nave, di non averla abbandonata per ultimo.
Art. 36. - Ogni ufficiale, incaricato della condotta di un convoglio, colpevole d'averlo abbandonato volontariamente, sarà condannato a morte.Risulta, difatti, che quando il capitano della Medusa ha abbandonato la fregata, vi si trovavano ancora sessantaquattro sventurati. E risulta inoltre che lo stesso capitano montava una delle imbarcazioni che rimorchiavano la zattera; che quella zattera poteva essere considerata come un convoglio, anzi come il più prezioso e il più sacro carico affidato al suo onore e alla sua umanità, e che, tuttavia, egli lo abbandonò. Cosicché, sotto questo punto di vista, e astrazion fatta dell'inesperienza e inettitudine di quest'ufficiale, le citate disposizioni penali avrebbero dovuto essere applicate al caso suo.
Con tutto ciò egli e stato semplicemente condannato ad una pena correzionale e temporanea; e tale pena è, più che altro, una concessione forzata alla pubblica opinione da parte dell'autorità anch'essa compromessa per l'imprudenza della propria scelta, e non applicazione schietta ed energica della legge.
Chiediamo che la Camera sia resa edotta della procedura e del giudizio di quel processo, e ch'essa esamini se l'accusa abbia spiegato tutta la propria opera, o se invece si sia ricorso a qualche ripiego per sottrarre l'accusato alla giusta applicazione della legge, e illudere così la pubblica opinione con l'apparenza di un processo e di un verdetto.
Chiediamo questo non tanto nell'interesse del nostro risentimento e come riparazione in nome della memoria dei nostri poveri compagni di sciagura, quanto nell'interesse della nostra marina, che, sin dalla sua rinascita, si è vista affliggere da una quantità di sinistri rimasti impuniti. Non si potrà ottenere, a proposito, un risultato consistente se non con la rigorosa esecuzione delle leggi e con esemplari condanne.
Chiediamo, in secondo luogo, che la Camera inviti il ministro a far compiere un'inchiesta sui seguenti punti, cioè:
I° Se il colonnello comandante, per il Re, gli stabilimenti francesi sulla costa occidentale dell'Africa, signor Schmaltz, non è rimasto per due giorni nella rada di San Luigi senza avvertire il governatore inglese della condizione in cui ci aveva lasciati, e senza intimargli, in nome dell'umanità, d'inviare tutte le navi della colonia alla ricerca e in soccorso dei naufraghi;
2° Se lo stesso comandante non abbia rifiutato l’offerta, che gli avrebbe fatto il governatore inglese, di mettere a sua disposizione tutte le navi del porto per andare immediatamente alla ricerca della zattera;
3° S'egli non abbia ritardato di due giorni la partenza del « duealberi» Argo;
4° Se non abbia sanzionato, col suo silenzio, il saccheggio della fregata.
Questi fatti sono di indubbia verità, e noi li attestiamo sul nostro onore.
Il signor Schmaltz è dunque indegno di rappresentare il Governo francese al Senegal. Egli deve almeno subire l'applicazione del paragr. 12 dell'art. 475 del Codice penale, che commina pene di polizia contro chi ha rifiutato o ha negletto di recare soccorsi in un naufragio o in qualunque altro accidente.
La Camera potrà cogliere l'occasione per farsi render conto dell'amministrazione interna di quella colonia, nella quale si smarrisce, da gran tempo, un'aliquota considerevole del pubblico denaro, senza che se ne sappia la destinazione e se ne conoscano i risultati utili.

Essa potrà inoltre verificare sino a che punto rispondano a verità le voci della pubblica opinione che additano le autorità poste alla testa di quegli stabilimenti come intente a favorire la tratta dei negri, e se in questo modo di operare abbia parte l'interesse privato.
Non ci facciamo garanti di tali voci, ma esse sono abbastanza gravi per provocare un'inchiesta e una punizione esemplare, nel caso fossero fondate, o una giustificazione solenne se fossero spoglie di fondamento.
Certo si è, invece, che colui il quale ha vilmente abbandonato i propri concittadini nella più spaventosa situazione; colui il quale, dopo aver provveduto alla propria salvezza, ha spiegato tale indifferenza e lentezza nell'inviar loro soccorsi, da disonorare la qualifica di Francese agli occhi degli stranieri, con la sua ingenerosità ed egoismo; certo si è che costui, ubbidendo servilmente agli ordini del governatore inglese, si è adattato a sistemarsi supinamente nella residenza indicatagli, mentre le istruzioni ricevute e l'onore nazionale gli suggerivano di reclamare dallo straniero la consegna immediata della colonia, o almeno di protestare solennemente contro l'infrazione dei trattati. Costui è pur capace di essersi lasciato corrompere da una vergognosa cupidigia: giacchè egoismo e viltà sono sempre indissolubili.
Terminerò questa petizione esponendo i motivi che mi inducono a chiedere la messa in stato d'accusa di molti ufficiali della spedizione del Senegal nel 1816 e dell'ex ministro visconte Dubouchage.
I° Del capitano di fregata comandante la spedizione, per aver abbandonato, il 21 o il 22 giugno 1816, l'avviso Loira e il « duealberi» Argo, facenti parte di quella spedizione (Art. 36 c 41 della legge del 22 agosto 1790).
2° Dello stesso capitano e dell'ufficiale di quarto, per avere, il 23 giugno 1816, abbandonato ignominiosamente un mozzo dell'età di 15 anni, che cadde in mare e al quale fu lanciato il gavitello di salvataggio sul quale egli dovette porsi in salvo, poiché sapeva benissimo nuotare.

Considerate:
a) che non si è manovrato con abbastanza prontezza per arrestare totalmente il cammino della nave;
b) che fu calata in mare una sola scialuppa di sei remi, nella quale non v'erano che tre uomini;
c) che si è continuato a procedere prima di aver ritrovato il gavitello di salvataggio; fatto che non si verifica mai nella marina.
3° Dell'ufficiale che comandava l'imbarcazione che si recò a Santa Cruz di Teneriffa, il 30 giugno, per avere spietatamente ricusato di condurre a bordo sei sventurati prigionieri francesi i quali si trovavano nell'isola da circa otto anni, e che vivevano solo di quanto gli Spagnoli concedevano loro.
4° Del capitano comandante la divisione, per non aver riconosciuto il Capo Bianco, come gli imponevano le istruzioni ricevute (Art. 41 e 42 della legge già citata).
5° Dello stesso capitano, per aver perduto la fregata Medusa (Art. 38, 39, 41 e 42 della stessa legge).
6° Dello stesso capitano, per non aver lasciato per ultimo il proprio bastimento, e per aver abbandonato sessantatre uomini a bordo della fregata (Art. 35 della legge citata).
7° Di tutti gli ufficiali della fregata Medusa per avere spietatamente abbandonato centocinquantadue francesi, ai quali avevano giurato, sull'onore, di condurli sino a terra, e per essere stati cagione della morte di 13 di questi uomini. (In virtù di tutte le leggi umane, e degli articoli 36 e 37 della legge citata).
8° Del capitano in capo della divisione, per non avere, al suo arrivo a San Luigi, imposto ai comandanti ai suoi ordini, delle navi Loira, Eco e Argo di recarsi subito alla ricerca della zattera.
9° Del colonnello, comandante per il Re, gli stabilimenti francesi sulla costa occidentale dell'Africa, per i seguenti motivi:
a) Per essere rimasto due giorni nella rada di San Luigi, senza aver chiesto di comunicare col governatore inglese, e per non avergli intimato, in nome dell'umanità, d'inviare tutte le navi della colonia alla ricerca della zattera;
b) Per non aver voluto accettare l'offerta, che gli è stata fatta dal governatore inglese, di mettere a disposizione tutte le navi della città di San Luigi, e di recarsi alla ricerca della zattera;
c) Per aver ritardato di oltre due giorni la partenza del « duealberi» Argo, dopo avere impartito ordini a proposito, per correre in aiuto dei naufraghi che si trovavano sulla costa del deserto di Sahara, e poi sino alla fregata, per assicurarsi se le correnti non avessero spinto la zattera verso di essa;
d) Per non aver fatto perseguire i colpevoli che hanno dilapidato gli effetti del governo e quelli degl'infelici naufraghi, tratti in salvo due mesi dopo la perdita della fregata;
e) Per non aver fatto perseguire gli assassini del cantiniere, soprannominato Papa Medusa - Trovato morto alla porta della residenza del governatore, a due passi dal corpo di guardia. Questo sventurato era uno dei tre uomini rimasti cinquantadue giorni a bordo della Medusa, fatto che gli procurò appunto il nomignolo di Papà Medusa;
f) Per aver favorito la tratta dei negri, praticata al Senegal e in tutti i luoghi da lui amministrati, come si faceva nel passato.
10° Dell'ex-ministro della marina, visconte Dubouchage, pari di Francia:
a) Per non aver fatto giudicare tutti gli autori dei delitti precedentemente enunciati;
b) Per essersi reso colpevole verso la patria, proteggendo il delitto e incoraggiandolo con l'impunità, e ricompensando persino i colpevoli destinandoli al comando di navi;
c) Per aver fatto mettere sotto giudizio il capitano comandante la divisione, con l'unica accusa di aver perduto soltanto la propria nave, e non per avere cagionato la morte di oltre duecento francesi, e aver disertato il suo posto, abbandonando sessantaquattro uomini.
11° Dello stesso ministro, per aver compromesso la sicurezza dei cittadini francesi al servizio della patria, e sacrificati i vascelli dello Stato, aggiudicando quasi tutti i comandi a uomini incapaci di assolvere simile ufficio, a causa della loro ignoranza, constatata da tutti gli autentici marinai francesi, e giustificata da questi fatti:
a) Il naufragio della Medusa;
b) Il naufragio dell'avviso Allodola;
c) Il pericolo corso dall'avviso Golo nell'uscire dal porto di Tolone;
d) Il pericolo corso dall'avviso Elefante, che tre o quattro giorni dopo della sua uscita da Rochefort, perse i suoi tre alberi, e fu necessario farlo riparare a Plymouth. (Gli ufficiali agli ordini del capitano salvarono anche questa nave);
e) Idem dell'avviso Liocorno, che usciva da Brest: per recarsi a Rochefort e che, quindici giorni dopo la partenza, si trovò sulle Canarie. Il capitano fu costretto a confessare la propria ignoranza ai suoi ufficiali che ricondussero, lui e la nave, a Rochefort;
f) Del « duealberi» Lince, che, nella Manica corse da scoglio a scoglio, e che tornò quasi per miracolo in Francia, ecc. ecc.
Parigi, 21 aprile 1819
Passato all'ordine del giorno

Istanza presentata il 21 aprile 1819 alle Camere dei pari e dei deputati di Parigi da Alexandre Corréard (ingegnere-geografo ed editore), uno dei naufraghi della fregata Medusa - già autore (con il medico della marina H. Savigny, anche lui sopravvissuto al naufragio) del libro: “Naufrage de la frégate La Méduse faisant partie de l’expédition du Senegal en 1816" - Premiere edition ornée de huit gravures, par M. Géricault, et autres artistes. A Paris, chez Corréard, Libraire 1818).


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A proposito di questo processo, ecco come si esprime Lobbe de Montgaillard nella Rivista cronologica della Storia di Francia, pag. 728 e 729:
"Una lunga inoperosità ha reso i nostri vecchi ufficiali troppo inabili ad apparire su quell’elemento che aveva già goduto l'orgoglio del loro trionfi. Pensioni di vecchiaia, ecco che cosa avrebbe dovuto conceder loro il ministro. Invece egli affida al più inetto, al più presuntuoso marinaio del vecchio secolo, il comando in capo di una importante spedizione, e il destino di quattrocento Francesi, nonché il valore di una divisione navale, il cui equipaggiamento è costato i contributi di duecento comuni. Inoltre il capitano Chaumareys, dopo il sinistro di cui sembra essere l'unica causa, adotta misure sempre più inefficaci per salvare l'equipaggio e i passeggeri. Centocinquantadue passeggeri si ammucchiavano su una zattera mal costruita. Sopravvenuto qualche accidente, il capitano abbandona la zattera rimorchiata e lascia centocinquanta francesi a lottare, per tredici giorni, con la fame e la sete, la tempesta il sole del tropico. Di quindici che pervengono a terra, cinque vi troveranno sepoltura.
Nondimeno, il capitano osava riapparire in Francia. Un consiglio lo giudicherà, lo salverà anche (poiché gli salverà la vita); e la sentenza non sarà resa pubblica. I giornali asserviti non ne faranno menzione; e nessun «pari», nessun deputato si leverà ad accusare un ministro, complice di siffatto disastro, poiché egli concede al colpevole la sua protezione."

LA MEMORIA DELLA MEDUSA
Alexandre Corréard
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 6 dicembre 2012
UNA SETTIMANA DI BONTA'
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