IL CASO E LA NECESSITA'

Jacques Monod . 1970
arteideologia raccolta supplementi
made n.18 Dicembre 2019
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Vitalismi e animismi . Capitolo IIo de Il caso e la necessità 

Dilemma fondamentale: il rapporto di priorità tra invarianza e teleonomia

Qualunque concezione del mondo - filosofica, religiosa, scientifica - per il fatto che le proprietà teleonomiche degli esseri viventi mettono apparentemente in dubbio uno dei postulati fondamentali della teoria moderna della conoscenza, presuppone necessariamente una soluzione di questo problema, sia questa soluzione implicita oppure no.
 Ogni soluzione, qualunque ne sia la motivazione, implica altrettanto inevitabilmente un’ipotesi relativa alla priorità, causale e temporale, delle due proprietà caratteristiche degli esseri viventi, cioè invarianza e teleonomia, l’una in rapporto all’altra.
Riserviamo a un prossimo capitolo l’enunciato e la discussione dell’unica ipotesi che la scienza moderna considera accettabile, cioè che l’invarianza precede di necessità la teleonomia. Per essere più espliciti, si tratta dell’idea darwiniana che la comparsa, l’evoluzione e il progressivo affinamento di strutture sempre più fortemente teleonomiche sono dovuti al sopraggiungere di perturbazioni in una struttura già dotata della proprietà di invarianza, e quindi capace di coneservare il 'caso’ e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale.
Beninteso, la teoria che io cerco di abbozzare qui brevemente e dogmaticamente non è proprio quella di Darwin che, ai suoi tempi, non poteva avere alcuna idea dei meccanismi chimici dell’invarianza riproduttiva, né della natura delle perturbazioni a cui tali meccanismi soggiacciono. Ma non si toglie nulla al genio di Darwin quando si constata che soltanto in quest’ultimo ventennio la teoria selettiva dell’evoluzione ha acquisito tutto il suo significato, tutta la sua precisione, tutta la sua certezza.
Tale teoria è finora l’unica, tra quelle proposte, che sia compatibile con il postulato di oggettività in quanto riduce la teleonomia a una proprietà secondaria derivata dall’invarianza (la sola proprietà considerata primitiva).
Essa è anche l’unica compatibile con la Fisica moderna, non solo, ma poggia sulle sue basi senza restrizioni né corollari e, in definitiva, assicura la coerenza epistemologica della Biologia e le fa posto tra le scienze della ‘Natura oggettiva’: argomento, questo, validissimo in suo favore, ma non sufficiente a giustificarla.
Tutte le altre concezioni, esplicitamente proposte per giustificare la stranezza degli esseri viventi o implicitamente velate dalle ideologie religiose e dalla maggior parte dei grandi sistemi filosofici, presuppongono l’ipotesi inversa e cioè che l’invarianza è protetta, l’ontogenesi guidata, l’evoluzione orientata da un principio teleonomico iniziale, di cui tutti questi fenomeni sarebbero manifestazioni. Da qui in poi, fino alla fine del capitolo, analizzerò in modo schematico la logica di queste interpretazioni, che sono molto diverse in apparenza, ma che implicano tutte l‘abbandono parziale o totale, confessato o no, cosciente o no, del postulato di oggettività. Sarà utile, per questo motivo, adottare una classificazione di tali concezioni (a dire la verità, un po‘ arbitraria) in funzione della natura e della supposta estensione del principio teleonomico a cui esse si richiamano.
È così possibile definire un primo gruppo di teorie, cioè quelle che ammettono un principio teleonomico i cui interventi si presuppongono espressamente limitati all’ambito della biosfera, cioè all’ambito della ‘materia vivente’. Tali teorie, che chiamerò vitalistiche, implicano dunque una radicale distinzione tra gli esseri viventi e l’universo inanimato.
Da un altro lato si possono raggruppare quelle concezioni che fanno appello a un principio teleonomico universale,
responsabile sia dell’evoluzione cosmica sia dell’evoluzione della biosfera, in seno alla quale il suddetto principio si esprimerebbe in modo più preciso e più intenso.
Tali teorie vedono negli esseri viventi i prodotti più elaborati, perfetti, di un’evoluzione orientata in tutto l’universo e sfociata, perché doveva sfociarvi, nell’uomo e nell’umanità. Le definirò animistiche, e sotto molti aspetti esse sono più interessanti di quelle vitalistiche a cui dedicherò solo un breve cenno.*

Il vitalismo metafisico

Nell’ambito delle teorie vitalistiche si possono individuare tendenze molto diverse, ma qui ci si limiterà alla distinzione tra ciò che chiamerò ‘vitalismo metafisico’ e ‘vitalismo scientistico’.
Il più illustre sostenitore di un vitalismo metafisico è stato indubbiamente Bergson. È noto che, grazie a uno stile seducente, a una dialettica metaforica priva di logica ma non di poesia, la sua filosofia ha incontrato un immenso favore.
Sembra invece che, al giorno d’oggi, essa sia quasi totalmente screditata mentre, ai tempi della mia giovinezza, non si poteva neppure sperare di superare l’esame di maturità senza aver letto L’evoluzione creatrice. E’ bene ricordare che questa filosofia poggia interamente su una certa idea della vita concepita come uno ‘slancio’, come una ‘corrente’ che, radicalmente distinta dalla materia inanimata, è tuttavia in lotta con essa e la ‘attraversa’ per costringerla a organizzarsi.
A differenza di quasi tutti gli altri vitalismi o animismi, il vitalismo di Bergson non è finalistico. Esso si rifiuta di racchiudere in una qualsiasi determinazione la spontaneità essenziale della vita. L’evoluzione, che si identifica con lo slancio vitale stesso, non può dunque avere né cause finali né cause efficienti. L’uomo rappresenta lo stadio supremo a cui è giunta l’evoluzione, ma senza averlo cercato o previsto: egli è piuttosto la manifestazione e la prova della totale libertà dello slancio creatore.
A questo concetto ne è legato un altro, fondamentale per Bergson : l’intelligenza razionale è uno strumento di conoscenza adattato in modo speciale a dominare la materia inerte, ma assolutamente incapace di comprendere i fenomeni della vita. Soltanto l’istinto, consostanziale allo slancio vitale, può consentire un’intuizione diretta, globale. Perciò qualunque discorso analitico e razionale sulla vita è senza senso o, meglio, fuori tema.
Il notevole sviluppo dell’intelligenza razionale in Homo sapiens ha provocato un grave e increscioso impoverimento delle sue facoltà intuitive, la cui ricchezza noi dobbiamo oggi tentare di ricuperare.
Non cercherò di discutere questa filosofia che, d’altronde, non si presta neppure a discussioni. Chiuso nei confini della logica, scarsamente dotato di intuizioni generali, me ne sento incapace, per quanto consideri l’atteggiamento di Bergson tutt’altro che insignificante. La rivolta, più o meno cosciente, contro il razionale e l’importanza attribuita all’Es a spese dell’Io (per non parlare della spontaneità creatrice) sono caratteristiche del nostro tempo.
Se Bergson avesse usato un linguaggio meno chiaro, uno stile più ‘profondo’, oggi lo si leggerebbe ancora.**

II vitalismo scientistico

I sostenitori del vitalismo ‘scientistico’ sono stati numerosi e annoverano nelle loro file scienziati di grande valore. Ma, mentre una cinquantina d’anni or sono, i vitalisti si reclutavano tra i biologi (il più noto dei quali, H. Driesch, abbandonò l’embriologia per dedicarsi alla filosofia), oggi essi provengono soprattutto dalle scienze fisiche, come Elsasser e Polanyi. Ed è comprensibile che la stranezza degli esseri viventi abbia colpito i fisici in misura ancora maggiore dei biologi. Per quanto riguarda, ad esempio, Elsasser, il suo atteggiamento è in sintesi il seguente: le proprietà strane degli esseri viventi, l’invarianza e la teleonomia, non violano probabilmente la fisica, ma esse non sono spiegabili appieno in termini di forze fisiche e di interazioni chimiche, rivelate dallo studio dei sistemi non viventi. È dunque indispensabile ammettere che alcuni principi - i quali si sommerebbero a quelli della fisica - operano nella materia vivente e non nei sistemi non viventi dove di conseguenza essi, come principi elettivamente vitali, non possono essere reperiti. Sono questi principi (o leggi biotoniche, per usare la terminologia di Elsasser) che è necessario chiarire.
Anche il grande Nils Bohr non scartava, a quanto pare, tali ipotesi pur non pretendendo di dimostrare che erano necessarie. Lo sono esse veramente? È qui, in definitiva, il nocciolo della questione, secondo quanto sostengono in particolare Elsasser e Polanyi. Il meno che si possa dire delle argomentazioni di questi fisici è che mancano singolarmente di rigore e di fermezza.
I temi delle loro discussioni riguardano ciascuna delle proprietà singolari degli esseri viventi. Per quanto concerne l’invarianza, il suo meccanismo è oggi abbastanza noto da consentirci di affermare che, per interpretarla, non è necessario alcun principio non fisico (si veda il capitolo VI).
Resta la teleonomia o, più esattamente, restano i meccanismi morfogenetici che costruiscono le strutture teleonomiche. È verissimo che lo sviluppo embrionale è uno dei fenomeni in apparenza più miracolosi di tutta la Biologia ma è pur vero che esso, mirabilmente descritto dagli embriologi, sfugge ancora in grande parte (e per ragioni tecniche) alle analisi genetica e biochimica, le sole, con ogni probabilità, che potrebbero consentire di interpretarlo. L’atteggiamento dei vitalisti i quali sostengono che le leggi fisiche sono, o comunque si riveleranno, insufficienti a spiegare l’embriogenesi non è dunque giustificato da conoscenze precise o da osservazioni compiute, ma solo dalla nostra attuale ignoranza.
In compenso le nostre conoscenze relative ai meccanismi cibernetici molecolari, che regolano l’attività e l’accrescimento della cellule, hanno fatto notevoli progressi e contribuiranno senza dubbio in un prossimo futuro all’interpretazione dello sviluppo. Riserviamo al capitolo IV la discussione su questi meccanismi, il che ci offrirà l’occasione di tornare su certe argomentazioni dei vitalisti. Per sopravvivere, al vitalismo è necessario che continuino a esistere nella Biologia, se non paradossi veri e propri, almeno ‘misteri’.
Gli sviluppi che si sono registrati in questi ultimi vent’anni nella biologia molecolare hanno ridotto singolarmente il loro numero, lasciando praticamente aperto alle speculazioni vitalistiche soltanto il campo della soggettività, cioè quello della coscienza stessa.Non è troppo arrischiato prevedere che in questo ambito, per il momento ancora ‘riservato’, le speculazioni si dimostreranno sterili come in tutti gli altri campi in cui esse sono state condotte fino a oggi. 

La ‘proiezione animistica’ e la ‘antica alleanza’

Le concezioni animistiche, che risalgono all’infanzia dell’umanità e che sono forse anteriori alla comparsa di Homo sapiens, affondano ancora radici profonde e vigorose nell’anima dell’uomo moderno.
I nostri antenati potevano certamente percepire la stranezza della loro condizione di esseri viventi soltanto in modo molto confuso.
Essi non avevano le ragioni che abbiamo noi oggi di sentirsi estranei all’universo. Ma che cosa innanzitutto vedevano in esso? Animali, piante: esseri di cui potevano immediatamente intuire la natura, simile alla loro. Le piante crescono, cercano il sole, muoiono; gli animali cacciano la preda, assalgono i nemici, nutrono e difendono la prole; i maschi si battono per il possesso della femmina. Le piante, gli animali e l’uomo stesso venivano agevolmente compresi in quanto esseri dotati di un progetto, che consiste nel vivere e nel sopravvivere nella propria discendenza, anche a costo di morire. Il progetto dà ragione dell’essere e l’essere ha senso soltanto in virtù del suo progetto.
Ma i nostri antenati si vedevano circondati anche da altri oggetti ben più misteriosi: rocce, fiumi, montagne, pioggia, temporali, corpi celesti, i quali, se esistevano, dovevano pur rispondere a un progetto e avere un’anima per alimentarlo.
Così, per quegli uomini, si risolveva la stranezza dell’universo: non esistono in realtà oggetti inanimati, cosa che sarebbe incomprensibile. In seno al fiume, sulla cima delle montagne, anime segrete nutrono progetti più vasti e impenetrabili di quelli, trasparenti, degli uomini e degli animali.
I nostri antenati vedevano dunque nelle forme e negli avvenimenti naturali l’azione di forze benevole o ostili, che non erano mai indifferenti, mai del tutto estranee.
L’atteggiamento fondamentale dell’animismo (così come intendo definirlo qui) consiste nel proiettare nella natura inanimata la coscienza che l’uomo possiede del funzionamento intensamente teleonomico del proprio sistema nervoso centrale. Si tratta, in altri termini, dell’ipotesi secondo cui i fenomeni naturali possono e devono essere interpretati in definitiva nello stesso modo, con le stesse leggi, dell’attività umana soggettiva, cosciente e proiettiva. L’animismo primitivo la formulava con estrema ingenuità, franchezza e precisione, popolando così la natura di miti benevoli o ter-ribili che, per secoli, hanno alimentato l’arte e la poesia.
Non sarebbe giusto sorriderne, neppure con quella tenerezza e con quel rispetto che ispira l’infanzia. Crediamo forse che la cultura moderna abbia veramente rinunciato all’interpretazione soggettiva della natura? L’animismo stabiliva tra la Natura e l’uomo una profonda alleanza, al di fuori della quale esiste solo una spaventosa solitudine. Bisogna allora spezzare questo legame solo perché il postulato di oggettività lo impone?
La storia delle idee, a partire dal XVII secolo, è testimone degli sforzi in cui si sono prodigati i maggiori spiriti per evitare questa rottura, per forgiare di nuovo l’anello della ‘antica alleanza’. Basta pensare, per esempio, ai grandiosi tentativi di Leibniz o all’enorme e ponderoso monumento innalzato da Hegel.
Tuttavia l’idealismo non è stato sicuramente l’unico rifugio di un animismo cosmico. Nel cuore stesso di alcune ideologie che si proclamano e vogliono essere fondate sulla scienza, si ritrova, in forma più o meno velata, la proiezione animistica. 

Il progressismo scientistico

La filosofia biologica di Teilhard de Chardin non meriterebbe di soffermarvisi se non fosse per il successo incontrato anche negli ambienti scientifici, che testimonia l’angoscia, il bisogno di riannodare quell’alleanza. E Teilhard la riannoda senza tergiversare. La sua filosofia, come quella di Bergson, è interamente basata su un postulato evoluzionistico iniziale ma, contrariamente a Bergson, egli ammette che la forza evolutiva opera nell’universo intero, dalle particelle elementari alle galassie: la materia ‘inerte’ non esiste, e quindi non c’è distinzione di essenza tra materia e vita.
Il desiderio di presentare come ‘scientifica’ questa concezione indusse Teilhard a fondarla su una nuova definizione dell’energia. Quest’ultima sarebbe distribuita in qualche modo secondo due vettori, uno dei quali rappresenterebbe (suppongo) l’energia ‘ordinaria’, mentre l’altro corrisponderebbe alla forza di ascendenza evolutiva. La biosfera e l’uomo sono i prodotti attuali di quest’ascendenza lungo il vettore spirituale dell’energia. Tale evoluzione deve continuare fino a che tutta l’energia sia concentrata, secondo questo vettore, nel ‘punto Ω’.
Nonostante la logica incerta di Teilhard e il suo stile faticoso, anche tra coloro che non accettano interamente la sua ideologia certuni riconoscono in essa una certa grandezza poetica. Per quanto mi riguarda, sono rimasto colpito dalla mancanza di rigore e di austerità intellettuale della sua filosofia in cui scorgo, soprattutto, un sistematico compiacimento nel voler conciliare e transigere a ogni costo.
Può darsi, dopo tutto, che non per niente egli appartenesse a quell’ordine religioso del quale, tre secoli prima, Pascal criticava il lassismo teologico.
Beninteso, l’idea di rinnovare l’antica alleanza animistica con la Natura o di stringerne una nuova, grazie a una teoria universale secondo la quale l’evoluzione della biosfera fino all’uomo avverrebbe nella continuità, senza interruzione, della stessa evoluzione cosmica, non è stata scoperta da Teilhard. È infatti l’idea centrale del progressismo scientistico del XIX secolo. La si ritrova nel cuore stesso del positivismo di Spencer come pure nel materialismo dialettico di Marx e di Engels.
La forza ignota e inconoscibile che, secondo quanto afferma Spencer, opera in tutto l’universo, per creare in esso varietà, coerenza, specializzazione, ordine, ha in definitiva la stessa funzione dell’energia ‘ascendente’ di Teilhard: la storia dell’uomo è il prolungamento dell’evoluzione biologica che, a sua volta, fa parte dell’evoluzione cosmica. Grazie a questo principio unico, l’uomo ritrova infine nell’universo un posto preminente e necessario, con la certezza del progresso a cui è sempre destinato.
La forza differenziatrice di Spencer (come l’energia ascendente di Teilhard) rappresenta evidentemente la proiezione animistica. Per dare un senso alla Natura, perché l‘uomo
non sia separato da essa da un insondabile abisso, per renderla infine decifrabile e intelligibile, era necessario dotarla
di un progetto
. In mancanza di un‘anima per alimentarlo, si inserisce allora nella Natura una ‘forza’ evolutiva, ascendente, il che coincide, di fatto, con l‘abbandono del postulato di oggettività.

La proiezione animistica nel materialismo dialettico .

Tra le ideologie scientistiche del XIX secolo, la più possente, quella che ancor oggi esercita una profonda influenza anche al di fuori dell’ambito pur vasto dei suoi sostenitori, è evidentemente il marxismo.
Ed è particolarmente significativo il fatto che, volendo fon-dare l’edificio delle loro dottrine sociali proprio sulle leggi della Natura, Marx e Engels si siano avvalsi anch’essi, tuttavia molto più chiaramente e deliberatamente di quanto non abbia fatto Spencer, della ‘proiezione animistica’.
Mi sembra infatti impossibile interpretare diversamente la famosa ‘inversione’ con cui Marx sostituisce il materialismo dialettico alla dialettica idealistica di Hegel.
Il postulato hegeliano, secondo cui le leggi più generali che regolano l’evoluzione dell’universo sono d’ordine dialettico, si inserisce perfettamente nel quadro di un sistema in cui solo allo spirito si riconosce una realtà permanente e autentica. Se tutti gli avvenimenti, tutti i fenomeni, sono soltanto manifestazioni parziali di un’idea che pensa se stessa, è legittimo cercare nell’esperienza soggettiva del movimento del pensiero l’espressione più immediata delle leggi universali. E poiché il pensiero procede dialetticamente, sono dunque le ‘leggi della dialettica’ a governare tutta la Natura.
>

Ma conservare immutate queste ‘leggi’ soggettive per farne le leggi di un universo esclusivamente materiale significa realizzare la proiezione animistica in tutta la sua chiarezza, con tutte le sue conseguenze, a cominciare dal rifiuto del postulato di oggettività.
Né Marx né Engels hanno analizzato nei particolari la logica di quest’inversione della dialettica per tentarne una giustificazione. Ma dai numerosi esempi di applicazione forniti soprattutto da Engels (nell’Anti-Dühring e nella Dialettica della Natura) si può tentare di ricostruire il pensiero profondo dei fondatori del materialismo dialettico, le cui articolazioni essenziali sono riportate di seguito.
1) Il modo di esistere della materia è il movimento.
2) L’universo definito come la totalità della materia, la sola ad esistere, si trova in uno stato di continua evoluzione.
3) Ogni conoscenza vera dell’universo è di natura tale da contribuire all’intelligenza di quest’evoluzione.
4) Ma tale conoscenza si ottiene solo nell’interazione, anch’essa evolutiva e causa di evoluzione, tra l’uomo e la materia (o più esattamente il ‘resto’ della materia). Ogni conoscenza vera è quindi ‘pratica’.
5) La coscienza è vista in rapporto a quest’interazione conoscitiva. Il pensiero cosciente riflette, di conseguenza, il movimento dell’universo stesso.
6) Poiché, dunque, il pensiero è parte e riflesso del movimento universale, e poiché il suo movimento è dialettico, anche la legge evolutiva dell’universo deve essere dialettica.
Ciò spiega e giustifica l’uso di termini come contraddizione, affermazione e negazione a proposito dei fenomeni naturali.
7) La dialettica è costruttiva (soprattutto in virtù della terza ‘legge’): di conseguenza l’evoluzione dell’universo è essa pure ascendente e costruttiva. Le sue espressioni più alte sono la società umana, la coscienza, il pensiero, prodotti necessari di quest’evoluzione.
8) Per il rilievo dato all’essenza evolutiva delle strutture dell’universo, il materialismo dialettico supera radicalmente il materialismo settecentesco che, fondato sulla logica classica, sapeva riconoscere soltanto interazioni meccaniche tra oggetti supposti invarianti e non era quindi in grado di concepire l’evoluzione.
Si può certamente contestare questa ricostruzione, negare che essa corrisponda al pensiero autentico di Marx e di Engels ma, dopotutto, questo non ha molta importanza (sic!).
L’influenza di un’ideologia si misura dal significato che di essa rimane nello spirito dei suoi seguaci e che le attribuiscono gli epigoni (sic!).
Innumerevoli testi dimostrano che la ricostruzione qui proposta è legittima (sic!), in quanto rappresenta perlomeno la ‘Volgata’ del materialismo dialettico (sic, sic!). Mi limiterò a citare un solo testo, estremamente significativo perché il suo autore, J. B. S. Haldane, era un illustre biologo moderno. Nella prefazione alla traduzione inglese della Dialettica della Natura, Haldane scrive:
«Il marxismo considera la scienza sotto due aspetti. In primo luogo, la studia tra le altre attività umane e mostra come l’attività scientifica di una società dipenda dall’evolversi dei suoi bisogni e quindi dei metodi di produzione, che la scienza a sua volta modifica come modifica l’evoluzione dei propri bisogni. In secondo luogo, Marx e Engels non si limitano ad analizzare le modifiche subite dalla società. Nella dialettica essi scoprono le leggi generali del cambiamento, non soltanto in seno alla società e al pensiero umano ma anche nel mondo esterno, riflesso dal pensiero umano. Ciò significa che si può applicare la dialettica sia a problemi di scienza ‘pura’ sia alle relazioni sociali della scienza.»

Il mondo esterno, “riflesso dal pensiero umano”: è questo in effetti il nocciolo della questione. La logica dell’inversione esige evidentemente che tale riflesso sia molto di più di una trasposizione, più o meno fedele, del mondo esterno.
Per il materialismo dialettico è indispensabile che il Ding an sich, la cosa o il fenomeno in sé, giunga fino al livello della coscienza senza essere né alterato né impoverito, vale a dire senza che venga operata alcuna selezione tra le sue proprietà caratteristiche. È necessario che il mondo esterno sia letteralmente presente alla coscienza nella completa integrità delle sue strutture e del suo movimento.***
Sarebbe possibile opporre a questa concezione certi testi dello stesso Marx, ma ciò non toglie (sic!) che essa sia indispensabile alla coerenza logica del materialismo dialettico come l’hanno visto sicuramente, se non Marx e Engels, i loro epigoni. Non si dimentichi d’altro canto che il materialismo dialettico rappresenta un corollario relativamente tardivo all’edificio socioeconomico già eretto da Marx, corollario chiaramente destinato a fare del materialismo storico una
‘scienza’ fondata sulle leggi della Natura stessa.

La necessità di un’epistemologia critica

L’esigenza radicale dello ‘specchio perfetto’ spiega l’accanimento dei dialettici materialistici nel ripudiare ogni specie di epistemologia critica che sarà ormai immediatamente qualificata ‘idealistica’ e ‘kantiana’.
Si può capire l’atteggiamento di questi uomini del XIX secolo, contemporanei della prima grande esplosione scientifica. Era lecito pensare allora che l’uomo, grazie alla scienza, stesse impadronendosi della Natura, stesse facendo propria la sua stessa sostanza. Nessuno, ad esempio, dubitava che la gravitazione fosse una legge della Natura, colta nella sua profonda intimità.
Come è noto , la seconda era della scienza, quella del XX secolo, doveva essere preparata da un ritorno alle origini. A partire dalla fine dell’Ottocento, la necessità assoluta di un’epistemologia critica torna ad essere evidente come condizione dell’oggettività della conoscenza. Non sono più solo i filosofi che si abbandonano a questa critica, ma anche gli uomini di scienza, indotti a includerla nella stessa trama teorica. A questa condizione possono svilupparsi la teoria della relatività e la meccanica quantistica.
D’altro canto, i progressi della neurofisiologia e della psicologia sperimentale cominciano a rivelarci perlomeno qualche aspetto del funzionamento del sistema nervoso.
Quanto basta perché sia evidente che il sistema nervoso centrale può, e senza dubbio deve, fornire alla coscienza solo un’informazione codificata, trasposta, inquadrata entro norme prestabilite, insomma assimilata e non semplicemente restituita.
La tesi del riflesso puro, dello specchio perfetto che non capovolgerebbe l’immagine, ci sembra oggi più insostenibile che mai. Ma in verità non era necessario aspettare gli sviluppi scientifici del XX secolo perché risultassero evidenti le confusioni e i nonsensi a cui tale teoria doveva inevitabilmente condurre.

Il fallimento epistemologico del materialismo dialettico

Per chiarire le idee di Dühring, che già li denunciava, Engels propose molte interpretazioni dialettiche dei fenomeni naturali. Si ricordi l’esempio del chicco d’orzo per illustrare la terza legge :

«Se un chicco di orzo trova le condizioni per esso normali, se cade su un terreno favorevole, sotto l’influsso del calore e dell’umidità subisce un’alterazione specifica, cioè germina; il chicco come tale muore, viene negato, e al suo posto spunta la pianta che esso ha generato, la negazione del chicco. Ma quale è il corso normale della vita di questa pianta ? Essa cresce, fiorisce, viene fecondata e, infine, a sua volta produce dei chicchi di orzo e, non appena questi sono maturati, lo stelo muore, viene a sua volta negato. Come risultato di questa negazione della negazione abbiamo di nuovo l’originario chicco di orzo, non però semplice, ma moltiplicato per dieci, per venti, per trenta»... «Altrettanto accade nella matematica» [aggiunge Engels più avanti.] «Prendiamo una qualsiasi grandezza algebrica, per esempio a. Neghiamola e avremo così -a. Neghiamo questa negazione moltiplicando - a per - a, avremo così + a2, cioè la primitiva grandezza positiva, ma ad un grado più elevato, ossia alla seconda potenza.»

Questi esempi illustrano soprattutto l’entità dei guai epistemologici provocati dall’uso ‘scientifico’ delle interpretazioni dialettiche.
I dialettici materialistici moderni evitano in generale di incorrere in simili balordaggini. Ma fare della contraddizione dialettica la ‘legge fondamentale’ di ogni movimento, di ogni evoluzione, è come tentare di sistematizzare un’interpretazione soggettiva della Natura, che permetta di scoprire in essa un progetto ascendente, costruttivo, creatore; di renderla decifrabile e moralmente significativa.
È ancora la ‘proiezione animistica’, riconoscibile qualunque siano i suoi travestimenti.
Si tratta di un’interpretazione non soltanto estranea alla scienza, ma incompatibile con essa, come si è potuto constatare ogni volta che i dialettici materialistici, uscendo dal puro vaniloquio ‘teorico’, hanno voluto illuminare le vie della scienza sperimentale con l’ausilio delle loro concezioni.
Lo stesso Engels (pur avendo della scienza a lui contemporanea una conoscenza profonda) era stato indotto a rifiutare, in nome della dialettica, due tra le più grandi scoperte del suo tempo: il secondo principio della termodinamica e (malgrado la sua ammirazione per Darwin) l’interpretazione puramente selettiva dell’evoluzione. E proprio in virtù di questi principi Lenin attaccava, e con quale violenza, l’epistemologia di Mach; Zdanov, più tardi, ordinava ai filosofi russi di prendersela con « le diavolerie kantiane della scuola di Copenaghen »; Lysenko accusava i genetisti di sostenere una teoria assolutamente incompatibile con il materialismo, e perciò necessariamente falsa. Malgrado i dinieghi dei genetisti russi, Lysenko aveva perfettamente ragione.
La teoria del gene come determinante ereditario invariante attraverso generazioni e generazioni, e perfino attraverso ibridazioni, è difatti assolutamente inconciliabile con i principi dialettici. Si tratta, infatti, per definizione, di una teoria idealistica in quanto poggia su un postulato di invarianza.
Il fatto che si conosca oggi la struttura del gene e il meccanismo della sua riproduzione invariante non cambia nulla, poiché la descrizione che ne dà la biologia moderna è puramente meccanicistica. Dunque si tratta ancora, al massimo, di una concezione che discende dal ‘materialismo volgare’, meccanicistico e, di conseguenza, ‘oggettivamente idealistico’, come è stato notato da L. Althusser nel suo severo commento alla mia lezione inaugurale tenuta al Collège de France.
Ho passato in rassegna brevemente, e in modo incompleto, queste ideologie o teorie. Si potrebbe pensare che ne abbia dato un’immagine deformata perché parziale. Cercherò di giustificarmi sottolineando che ho cercato di evidenziare qui ciò che esse ammettono, o implicano, riguardo la Biologia e più particolarmente il rapporto che esse presuppongono tra invarianza e teleonomia. Si è visto che tutte, senza eccezione, fanno di un principio teleonomico iniziale il motore dell’evoluzione, sia della sola biosfera, sia dell’intero universo. Per la teoria scientifica moderna, tutte queste concezioni sono erronee, e ciò non solo per questioni di metodo (in quanto implicano l’abbandono del postulato di oggettività), ma per ragioni di fatto che saranno discusse più avanti, nel capitolo VI.

L’illusione antropocentrica

All’origine di tali errori vi è naturalmente l’illusione antropocentrica. La teoria eliocentrica, il concetto di inerzia, il principio di oggettività non potevano bastare per dissolvere quest’antico miraggio. La teoria dell’evoluzione, lungi in un primo tempo dal dissipare l’illusione, sembrava anzi conferirle una nuova realtà facendo dell’uomo non più il centro, ma l’erede da sempre atteso, naturale, dell’intero universo.
Dio poteva morire, sostituito da questo nuovo e grandioso miraggio. L’ultimo disegno della Scienza sarebbe stato quello di formulare una teoria unificata che, in base a pochissimi principi, avrebbe giustificato l’intera realtà, compresa la biosfera e l’uomo. Da quest’esaltante certezza traeva alimento il progressismo scientistico del XIX secolo: teoria unificata che i dialettici materialistici credevano di aver già formulato.
Proprio perché gli sembrava di attentare alla certezza che l’uomo e il pensiero umano sono i prodotti necessari di un’ascendenza cosmica, Engels fu indotto a negare formalmente il secondo principio ed è significativo che lo abbia fatto già nell’introduzione alla Dialettica della Natura, e che abbia associato direttamente questo tema a una predicazione cosmologica appassionata con la quale promette, se non alla specie umana, perlomeno al ‘cervello pensante’ un eterno ritorno. Ritorno, in effetti, a uno dei più antichi miti dell’umanità.****

La biosfera: un evento strano non deducibile dai primi principi

Si dovette giungere alla seconda metà del Novecento perché svanisse anche il nuovo miraggio antropocentrico innestato sulla teoria dell’evoluzione. Credo che si possa affermare oggi che una teoria universale, per quanti consensi possa trovare, non potrebbe mai comprendere la biosfera, la sua struttura e la sua evoluzione in quanto fenomeni deducibili dai primi principi.
Questa proposizione può sembrare oscura ma cerchiamo di chiarirla. Una teoria universale dovrebbe evidentemente comprendere a un tempo la relatività, la teoria quantistica, una teoria delle particelle elementari. Ammesso di poter formulare alcune condizioni iniziali, essa conterrebbe anche una cosmologia capace di prevedere l’evoluzione generale dell’Universo. Noi sappiamo tuttavia che tali previsioni (contrariamente a ciò che credeva Laplace e, dopo di lui, la scienza e la filosofia ‘materialistica’ del XIX secolo) potrebbero essere solo di tipo statistico. La teoria includerebbe sicuramente la classificazione periodica degli elementi ma potrebbe solo determinare la probabilità di esistenza di ciascuno. Così essa sarebbe in grado di prevedere la comparsa di oggetti come le galassie o i sistemi planetari ma non potrebbe mai dedurre dai suoi principi l’esistenza necessaria di un certo oggetto, di un certo avvenimento, di un certo fenomeno particolare, sia esso la nebulosa di Andromeda, il pianeta Venere, il monte Everest, o il temporale di ieri sera.
In modo del tutto generale la teoria prevederebbe l’esistenza, le proprietà e i rapporti reciproci di certe classi di oggetti o di eventi, ma non potrebbe evidentemente prevedere né l’esistenza né i caratteri distintivi di nessun oggetto, di nessun evento particolare.
Secondo la tesi che presenterò qui, la biosfera non contiene una classe prevedibile di oggetti o di fenomeni, ma costituisce un evento particolare, certamente compatibile con i primi principi, ma non deducibile da essi e quindi essenzialmente imprevedibile.
Non vorrei essere frainteso: affermando che gli esseri viventi, in quanto classe, non sono prevedibili sulla base dei primi principi, non intendo affatto insinuare che essi non sono spiegabili con tali principi, che li trascendono in qualche modo e che è necessario trovarne altri, applicabili solo ad essi. Secondo me la biosfera è imprevedibile né più né meno della particolare configurazione di atomi che costituiscono il sasso che tengo in mano. Nessuno rimprovererebbe a una teoria universale di non affermare e prevedere l’esistenza di quella particolare configurazione atomica; basta che quell’oggetto attuale, unico e reale, sia compatibile con la teoria. Secondo quest’ultima esso non ha il diritto ma il dovere di esistere.
Tale ragionamento ci soddisfa nel caso del sasso, ma non di noi stessi. Noi vogliamo essere necessari, inevitabili, ordinati da sempre. Tutte le religioni, quasi tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, sono testimoni dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità che nega disperatamente la propria contingenza.

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* È forse il caso di sottolineare che i termini ‘animistico’ e ‘vitalistico’ sono da me impiegati in questo contesto in un’accezione particolare che si scosta leggermente da quella d’uso corrente. (n.d.a.)
** Naturalmente il pensiero di Bergson non è privo di oscurità o di apparenti contraddizioni. Ad esempio, sembra che si possa contestare l’essen-zialità del dualismo bergsoniano: bisognerebbe forse considerarlo come derivato da un monismo più primitivo? (C. Blanchard, comunicazione personale). È ovvio che non intendo affatto analizzare in questo contesto il pensiero di Bergson nelle sue ramificazioni, ma solo nelle sue implicazioni più dirette, che concernono la teoria dei sistemi viventi. (n.d.a.)
*** Citiamo anche il seguente passo di Lefebvre: «La dialettica, nonché essere un movimento interno dello spirito, è reale prima dello spirito: nell’essere. Essa si impone allo spirito. Noi analizziamo, innanzitutto, il movimento più semplice e astratto, quello del pensiero più nudo; scopriamo così le categorie più generali e la loro articolazione. Successivamente, è necessario che colleghiamo questo movimento al processo concreto, al contenuto dato; allora giungiamo alla consapevolezza del fatto che il movimento del contenuto e dell’essere si chiarisce nelle leggi dialettiche. Le contraddizioni del pensiero non derivano soltanto dal pensiero, dalla sua incapacità e dalla sua incoerenza, ma anche dal contenuto. La loro concatenazione tende verso l’espressione della integrale processualità del contenuto e la innalza al livello della coscienza e della riflessione..» (H. Lefebvre, Il materialismo dialettico, Torino, 1949). (n.d.a.)
**** « Arriviamo così alla conclusione che - secondo un processo che sarà compito della ricerca scientifica chiarire in avvenire - il calore irraggiato negli spazi celesti deve avere la possibilità di trasformarsi in un‘altra forma di movimento, nella quale esso potrà di nuovo concentrarsi e attivarsi. Cade con ciò la principale difficoltà che si frapponeva alla riconversione di soli estinti in nebulose incandescenti.» … «.Ma per quanto spesso, per quanto  inflessibilmente questo ciclo si possa compiere nello spazio e nel tempo; per quanti milioni di soli e di terre possano nascere e perire; per quanto tempo possa trascorrere finché su un solo pianeta di un sistema solare si stabiliscano condizioni necessarie alla vita organica; per quanti innumerevoli esseri organici debbano sorgere e scomparire prima che tra di essi si sviluppino animali dotati di un cervello pensante e trovino per un breve intervallo di tempo condizioni atte alla vita, per essere poi anch’essi distrutti senza pietà, noi abbiamo la certezza che la materia in tutti i suoi mutamenti rimane esternamente la stessa, che nessuno dei suoi attributi può mai andare perduto e che perciò essa deve di nuovo creare, in altro tempo e in altro luogo, il suo più alto frutto, lo spirito pensante, per quella stessa ferrea necessità che porterà alla scoperta di esso sulla terra. » (F. Engels, Dialettica della Natura, Roma, 31967). (n.d.a.)
Gillo Pontercorvo e Jean-Paul Sartre davanti Rosati in Piazza del Popolo, Roma 1959