IL LINGUAGGIO DEI PREOMINIDI

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André Leroi-Gourhan . 1964
arteideologia raccolta supplementi
made n.15 Maggio 2018
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
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Prima della scrittura è impossibile qualsiasi comprensione diretta del linguaggio. Si è tentato a volte di collegare all'eser­cizio del linguaggio la forma della mandibola, l'importanza delle creste d'inserzione dei muscoli della lingua, ma specu­lazioni del genere hanno poco senso perché il problema del linguaggio non è quello dei muscoli linguali. [1]
I movimenti della lingua hanno avuto un significato alimentare prima di avere una destinazione fonetica e non ha eccessiva rilevanza che la lingua dell'uomo di Mauer avesse un gioco limitato (e il giudizio in merito è difficile), perché si tratta in primo luogo di una organizzazione neuromotoria e di qualità delle proiezioni cerebrali: il problema del linguaggio è nel cervello e non nella mandibola. Si possono tuttavia trarre utili indica­zioni, dallo studio delle inserzioni dei muscoli facciali e della mascella, sul grado di elasticità degli organi della fonazione e della mimica. Per quel poco che se ne sa, i muscoli della espressione acquistano sempre più raffinatezza da una tappa antropiana all'altra, il che non fa che prolungare la traiettoria abbozzata nei Mammiferi superiori nei quali le espressioni facciali hanno una funzione a volte molto importante.
Per cercare di abbordare il problema del linguaggio degli Antropiani fossili, ritengo sia necessario seguire una via tra­versa. Abbiamo visto nel capitolo II come si sviluppava, nei Vertebrati superiori, il campo di relazione in due poli tra i quali il dispositivo neuromotore coordina le azioni della fac­cia e quelle della mano. Abbiamo pure visto, all'inizio di que­sto capitolo, che la fisiologia della corteccia cerebrale denota una stretta parentela tra le fibre di proiezione manuali e le fibre facciali. Sappiamo inoltre che le aree 8 e 44 della corteccia fronto-parietale intervengono in due anomalie del lin­guaggio, connesse l'una con l'impossibilità di formare i sim­boli scritti del linguaggio, l'altra con l'impossibilità di mette­re in ordine i simboli vocali (agrafia e afasia).
È chiaro quindi che esiste un nesso tra mano e organi fac­ciali e i due poli del campo anteriore denotano un analogo impegno nella costruzione dei simboli di comunicazione. Questa situazione dell'uomo attuale può venire proiettata nel passato, al di là della scrittura?




Il fenomeno dell'agrafia non corrisponde a collegamenti instauratisi nell'uomo dopo l'invenzione della scrittura, per­ché bisognerebbe allora ammettere che gli Australiani non sono in grado di imparare a scrivere, né a collegamenti neuronici che si svilupperebbero nel bimbo che impara a scrivere, perché gli adulti analfabeti non avrebbero la capacità di ac­quisire la nozione della scrittura. Si può allora ritenere che i rapporti tra l'area 44 e i centri piramidali della faccia siano della stessa natura di quelli che interessano la base della se­conda circonvoluzione frontale e i centri piramidali della ma­no. Ora, nei Primati, organi facciali e organi manuali com­piono un'azione tecnica di uguale grado. La scimmia lavora con le labbra, i denti, la lingua e le mani, così come l'uomo at­tuale parla con le labbra, i denti, la lingua, e gesticola o scrive con le mani. Ma a ciò si aggiunge il fatto che l'uomo costruisce anche con gli stessi organi e che tra le varie funzioni si è pro­dotta una specie di oscillazione: prima della scrittura la mano interviene soprattutto nella fabbricazione, la faccia soprattut­to nel linguaggio: dopo la scrittura, si ristabilisce l'equilibrio. In altri termini, partendo da una formula identica a quella dei Primati, l'uomo fabbrica utensili concreti e simboli, e gli uni e gli altri nascono da uno stesso processo o meglio fanno ricorso, nel cervello, alla medesima attrezzatura di base. Que­sto induce a pensare non solo che il linguaggio è tipico del­l'uomo quanto l'utensile, ma anche che entrambi sono unicamente l'espressione della stessa facoltà dell'uomo, esatta­mente come i trenta segnali vocali diversi dello scimpanzè so­no l'esatto corrispondente mentale dei bastoni infilati l'uno nell'altro per attirare a sé la banana appesa, cioè non sono un linguaggio più di quanto l'operazione dei bastoni non sia una tecnica nel vero senso della parola.
Su queste basi, forse, si potrebbe tentare una paleontolo­gia del linguaggio, paleontologia del resto fatta solo di schele­tro, dato che non vi è alcuna speranza di ritrovare la carne dei linguaggi fossili. Si può tuttavia mettere in risalto un punto fondamentale: esiste la possibilità di un linguaggio a partire dal momento in cui la preistoria ci tramanda degli utensili, perché utensile e linguaggio sono collegati neurologicamente e perché l'uno non è dissociabile dall'altro nella struttura sociale dell'umanità. [2]
È lecito andare ancora più in là? Probabilmente non v'è motivo per separare, negli stadi primitivi degli Antropiani, la fase del linguaggio da quella dell'utensile perché, oggigiorno e durante tutto il corso della storia, il progresso tecnico è collegato al progresso dei simboli tecnici del linguaggio. È possibile, in astratto, immaginare una educazione tecnica esclusivamente gestuale; in concreto, un'educazione muta mette in moto, tanto nell'educatore quanto nell'educato, un simbolismo riflesso. Il legame organico pare abbastanza forte perché si possa attribuire agli Australopitechi e agli Arcantropi un linguaggio di un livello pari a quello dei loro uten­sili. Nelle fasi in cui lo studio comparativo degli utensili e dei crani sembra dimostrare che l'industria si è sviluppata a un ritmo corrispondente a quello dell'evoluzione biologica, il livello del linguaggio dovette essere molto basso, ma superò certamente il livello dei segnali vocali. Infatti, ciò che caratterizza il «linguaggio» e la «tecnica» nelle grandi scimmie, è il fatto che compaiono spontaneamente sotto l'effetto di uno stimolo esterno e il fatto che scompaiono altrettanto spontaneamente o non compaiono affatto, quando la situazione esterna che li aveva fatti scattare cessa di manifestarsi o non si manifesta per nulla.
La fabbricazione e l'uso del chopper o dell'arma tagliente derivano da un meccanismo diversissimo, perché le operazioni per fabbricarli preesistono all'occasione di usarli e l'utensile dura in vista di azioni ulteriori. La dif­ferenza tra il segnale e la parola non è di diverso genere, per­ché la durata del concetto è di natura diversa ma paragonabi­le a quella dell'utensile.

Il concetto di concatenazione operativa sarà ripreso nei capitoli VII e VIII, ma è necessario farvi qui riferimento per comprendere il nesso tra tecnica e linguaggio. La tecnica è contemporaneamente gesto e utensile, organizzati in una con­catenazione da una vera e propria sintassi che conferisce alle serie operative fissità e duttilità al tempo stesso. La sintassi operativa è proposta dalla memoria e nasce tra il cervello e l'ambiente materiale. Continuando nel parallelo con il lin­guaggio, si ritrova sempre lo stesso processo. Si può quindi fondare sulla conoscenza delle tecniche, dalla pebble culture all’Acheuleano, l'ipotesi di un linguaggio il cui grado di com­plessità e ricchezza di concetti presentino una notevole analo­gia con quelli delle tecniche. Lo Zinjantropo con una sola serie di gesti tecnici e un numero ridotto di concatenazioni operative ci da un linguaggio il cui contenuto poteva essere appena superiore a quanto il gorilla possiede di segnali vocali, costituito però da simboli disponibili e non totalmente deter­minati. Gli Arcantropi, con la loro duplice serie di gesti, le loro cinque o sei forme di utensili, possedevano di certo con­catenazioni operative già molto complesse e il linguaggio che è possibile attribuire loro è notevolmente più ricco, ma con ogni probabilità ancora limitato all'espressione di situazioni concrete.
I primi Paleantropi ereditarono direttamente la situazione dei loro predecessori, con possibilità, però, sempre più am­pie. Nei Neanderthaliani si verifica l'esteriorizzazione di sim­boli non concreti. Da questo punto i concetti tecnici sono su­perati da concetti di cui non possediamo che le testimonianze operative manuali: inumazione, coloranti e oggetti strani; tali testimonianze implicano la certezza dell'applicazione del pensiero a campi che oltrepassano la motilità tecnica vita­le. Il linguaggio del Neanderthaliano non doveva differire di molto dal linguaggio che conosciamo negli uomini attuali. Essenzialmente legato all'espressione del concreto, doveva consentire la comunicazione nel corso degli atti, funzione pri­mordiale in cui il linguaggio è strettamente legato al compor­tamento tecnico: doveva anche permettere la trasmissione differita dei simboli dell'azione, sotto forma di racconti. Que­sta seconda funzione dovette emergere a poco a poco negli Arcantropiani, ma ciò è difficile da dimostrare. Infine, du­rante lo sviluppo dei Paleantropiani compare una terza fun­zione, quella in cui il linguaggio va oltre il concreto e ciò che riflette il concreto per esprimere sentimenti imprecisi dei quali si sa con certezza che in qualche misura hanno a che vedere con la religiosità. Questi nuovi aspetti saranno ripresi dal punto di vista di diverse incidenze, è sufficiente averne mostrato il punto di affioramento nei Paleantropiani.Il linguaggio degli Antropiani anteriori all'homo sapiens sembra quindi apparire in stretto rapporto con la motilità tecnica, in un rapporto così stretto che le due principali carat­teristiche antropiane, valendosi delle stesse vie cerebrali, potrebbero essere manifestazioni di un solo fenomeno. L'attivi­tà tecnica dei vecchi Antropiani presenta l'immagine di una evoluzione estremamente lenta, contrassegnata tanto da uten­sili quanto da crani, il cui miglioramento nel senso dell'’homo sapiens pare avvenire quasi sincronicamente. Nessun docu­mento serio, salvo quelli della fine, ha ancora dimostrato in loro qualcosa di diverso dallo sviluppo delle concatenazioni operative vitali. Se davvero il linguaggio ha un'origine comu­ne con la tecnica, siamo in diritto di immaginare anche quello sotto forma di concatenazioni operative semplici e limitate all'espressione del concreto, dapprima nello svolgimento im­mediato di questo, poi nella conservazione e nella riproduzio­ne volontaria di concatenazioni verbali all'infuori delle operazioni immediate. Quello che da qualche anno ha profon­damente modificato la situazione filosofica dell'uomo fossile è il fatto che, dopo lo Zinjantropo, è stato necessario ammet­tere un uomo già realizzato, dall'andatura eretta, capace di fabbricare utensili e, se è valida la mia dimostrazione, di par­lare. L'immagine di quest'uomo delle origini non quadra af­fatto con quella che due secoli di pensiero filosofico ci aveva­no abituato a vedere nell'uomo. I fatti dimostrano che l'uo­mo non è, come ci si era abituati a credere, una specie di scim­mia che migliora se stessa, maestoso coronamento dell'edifi­cio paleontologico, ma, appena si riesce a capirlo, qualcosa di diverso dalla scimmia. Nel momento in cui ci appare, gli re­sta ancora da percorrere una strada lunghissima, ma questa strada non dovrà percorrerla tanto nel senso di evolversi bio­logicamente quanto in quello di liberarsi della cornice zoolo­gica, in una organizzazione completamente nuova in cui la società si sostituirà via via alla corrente filetica. Se si vuole a tutti i costi ritrovare la scimmia originaria, adesso bisogna cacciarla in pieno Terziario. L'immagine già umana degli Australantropi è del resto sufficiente a cambiare le basi del pro­blema delle origini: il loro bipedismo è certo antico, implica una distanza notevole, in confronto con gli antenati, dalle scimmie attuali, qualcosa di paragonabile alla separazione della stirpe dei cavalli da quella dei rinoceronti, cioè la pro­spettiva di scoprire un giorno un piccolo animale, né scimmia né uomo ma atto a diventare, nella sua discendenza, l'una o l'altro.
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[1] . La leggenda dell'«apofisi geni» è un esempio del desiderio di spiegare ogni cosa partendo da quanto si possiede, per poco che si possieda. L'apofisi geni, sul lato interno del mento, è una sporgenza su cui s'inserisce il muscolo genioglossico che è uno dei motori della lingua. Il modo d'inserimento varia nei diversi mammiferi, ma se le apofisi geni non sono presenti che negli Antropiani, il muscolo genioglossico assolve una funzione molto importante, per esempio, nei ruminanti in relazione alla mobilità della lingua. Negli Antropiani, peraltro, le apofisi geni sono soggette a notevoli variazioni individuali e nei Paleantropi alcune mandibole li hanno più sviluppati di altre. Quelle della mascella di La Naulette, scoperta nel 1866, sono poco sviluppate. Essendo l'unico esemplare di mandibola paleantropiana allora nota, servì come base a una teoria sul linguaggio a cui G. de Mortillet, in Le Préhistorique, 1883, p. 250, fa un accenno sorprendente: «Tutti gli uomini, anche al più infimo livello, sanno servirsi della parola, ma è sempre stato cosi? La mascella di La Naulette risponde: - No! »
Dopo aver fatto parlare questa mascella priva di linguaggio, l'autore aggiunge: «La parola o linguaggio articolato si produce mediante una serie di movimenti della lingua. Tali movimenti si effettuano soprattutto mediante l'azione del muscolo inserito nell'apofisi geni. Gli animali privi di parola non possiedono l'apofisi geni. Quindi se questa apofisi manca alla mascella di La Naulette, vuoi dire che l'uomo di Neanderthal, l'uomo chelleano, non avevano la parola...»
Non si sa cosa ammirare di più tra questo gioco di destrezza che fa del-l'apofisi geni la condizione necessaria e sufficiente del linguaggio, il rigoroso disprezzo delle leggi della fonazione, che erano pur conosciute nel 1880, e il paradosso che arriva, poiché il genio glossico costituisce la maggior parte del muscolo linguale, a negare l'esistenza di una lingua come organo nello scimpanzè o nel vitello. Né sorprende di meno, in colui a cui si deve la prima classificazione razionale delle epoche preistoriche, con quale leggerezza e, contrariamente al suo stesso sistema, egli assimili Neanderthal e chelleano.

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2] . Sullo sviluppo sincronico della tecnica e del linguaggio l'antropologo russo V. V. Bounak ha elaborato una teoria, i cui termini sono abbastanza vicini a quelli da me proposti, ma partendo da dati tecnologici molto generali e da una ricostituzione delle tappe che vanno dal suono-segnale al linguaggio coordinato grammaticalmente. È di particolare interesse constatare che la strada molto diversa seguita qui attraverso l'integrazione del gesto e del simbolo fonico ha come punto d'arrivo una costruzione relativamente simile. Cfr. Bounak 1958.

Da Andrè Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino 1977, pag . 134-139