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[ un esercito di fantasmi ]
Deleuze-Guattari - Lo Stato continua a produrre e riprodurre cerchi ideali, ma ci vuole una macchina da guerra per fare il tondo. Bisognerebbe dunque determinare i caratteri propri della scienza nomade, per capire ad un tempo la repressione che subisce e l’interazione in cui si “tiene”.[1]
In un primissimo tempo Derrida finge di non ricordare chi ha detto che nei quadri di van Gogh non vi sono fantasmi.[2]
Soltanto dopo aver differito per cinquanta pagine la presenza dell’unica persona che ha detto parole definitive su van Gogh e sulla stuzzicante cura che ne ha preso la società, conclude infine nel nome di Artaud. [3]
Perché nei quadri di van Gogh davvero non si aggirano fantasmi, e tutto vi è manifesto. Così come nell’intera Europa è parimenti notoria l’indegna congiura che i professori hanno messo a punto per succhiargli il midollo spinale.
Nonostante l’errato conteggio del tempo fino al volo dei corvi, questi sono i capi d’amputazione redatti dall’antropofagia virtuosa: “L’instabilità e la dromomania di van Gogh inizia già in epoca precoce…”- certifica il dottor Beer prima di fornire i dettagli di tutte le valigie preparate da Vincent. 
Abbandonata la casa paterna a sedici anni, egli trascorre:
48 mesi all’Aja,
24 mesi a Londra,
10 mesi a Parigi,
8 mesi a Londra come pastore ausiliario,
3 mesi a Dordrecht come commesso libraio,
14 mesi ad Amsterdam come studente di teologia,
4 mesi a Bruxelles nella scuola dei missionari,
22 mesi nel Borinage.
Allorché il suo talento di pittore si afferma, trascorre
6 mesi a Bruxelles studiando disegno; si riposa
8 mesi a Etten da suo padre; passa
22 mesi all’Aja, 2 mesi vagabondando nella Drenthe,
24 mesi di nuovo nel nido familiare a Nuenen; e poi
3 mesi ad Anversa,
2 mesi a Parigi,
15 mesi ad Arles,
12 mesi di internamento a Saint-Rémy,
e si suicida poi a Auvers-sur-Oise dopo esservi rimasto
2 mesi.[4]

Avrete certamente notato che quando Vincent torna in famiglia il Dottor Beer tradisce un compiacimento per ciascuno di questi periodi, definiti di  “riposo” e di ritorno al “nido”.
Questo la dice lunga sulla cattiva coscienza di codesti filistei della salute.[5]
Ce n’è uno di questi turpi che in un solo colpo, sulla base della limitata tavolozza delle ocre, accetta senz’altro la retrodatazione delle scarpe 255 di un anno così da ricondurle al periodo di Nuenen, ossia al mondo dei contadini.
Non contento trasforma quel cagnaccio di Vincent [6] in un cane da pastore che agogna talmente la cuccia perduta, il seno accogliente e generoso della famiglia, da raffigurarli nei suoi quadri con nidi - in verità dipinti come una terribile rappresentazione dell’informe e dell’abietto.

“Vorrei che il Signore lo prendesse con sé”, disse la madre di quella sacra famiglia quando per Natale il figliolo si tagliò l’orecchio nel suo proprio orto degli ulivi.
D'altronde, sono noti i problemi che le madri hanno sempre avuto con il corpo nomade dei figli quando s’infilano le loro proprie scarpe.[7] 

Nel quadro di Van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe (e a chi appartengano[8]).
Intorno a quel paio di scarpe da contadino non c’è nulla di cui potrebbero far parte, c’è solo uno spazio indeterminato…[9]

Queste scarpe, che ora nella pittura riposano, non sono l’insegna di un confine che marca una territorialità: sono un vettore che non rende visibile il passo bensì il passare.
E’ per questo che Heidegger, non vedendo dove si trovano né di chi sono queste scarpe, ritiene di poter decidere lui di darle a chi più gli pare e piace; per esempio: ad una contadina.
Le scarpe invece si trovano lì, proprio davanti ai suoi occhi.
Esattamente “nel quadro di van Gogh”.
E’ questo il loro esser-Ci nel posto assegnatogli dalla pittura.
Per rendere conto di quanto hanno passato, di quanto hanno portato.
Il gravame e il tormento le forma e le s-forma sotto i nostri occhi, rende consistenti le suole, le tomaie, i lacci, le impunture e i chiodi.

Un paio di scarpe e null’altro?
Fatte di materia pittorica e consolazione, esse sono il nido e la dimora, il tribolo e il postribolo del reietto.
Ma dopo “aver viaggiato a lungo, attraversato ogni specie di città e di territori di guerra; diverse guerre mondiali e le deportazioni in massa”[10], possiamo giurare che sono ancora quelle stesse della partenza?
Non ci sono fantasmi nei quadri di van Gogh – aveva esordito Derrida.[11]
Anche lui però ci gira attorno, a queste scarpe. Se le rigira tra le mani, entra ed esce dalle asole come una stringa per niente stringata, senza decidersi ad imboccare senz’altro quella pista che pure intravede precisamente.
Le volta e le rivolta come un guanto per non venirne a capo.
No.
Non ci sono fantasmi nei quadri di van Gogh.
Un paio di scarpe e null’altro?
Eppure veniamo proprio intossicati da fantasmi - che se ne stanno tutti fuori dalle scarpe e dal quadro, nel tempo e nello spazio parergonale di una sala per conferenze della Columbia University, nel 1977.
Primo fra tutti c’è lo spettro di Heidegger che guarda lo spettro di una contadina che guarda quelle scarpe.[12]
Un paio di spettri che si guardano guardare un paio di scarpe spettrali diventano un fattore esponenziale di spettri e di fantasmi.
E poiché non si saprebbe di chi sono queste scarpe guardate, accade così che presto “un intero esercito di fantasmi reclama queste scarpe”… 

Fantasmi in armi, o una immensa ondata di deportati in cerca del loro nome. Se volete partecipare a questa scena teatrale, potete anche commuovervi: per la memoria senza fine di un saccheggio, di una spoliazione. E intere tonnellate di scarpe, ammucchiate da una parte, molte paia mescolate tra loro e inutili.[13] 

A cosa allude Derrida è del tutto evidente.
Ma si tratta poi di fantasmi piuttosto che di corpi pesanti privati della possibilità del lutto, a cui si dovrebbero aggiungere quelli dell’immenso esercito in cerca di dimora dei suicidati dalla società? [14]
Nonostante ogni cautela, a furia di frequentare il radioso sentiero storicizzato dell’Occidente, il francese non poteva proprio evitare d’inciampare in certi cumuli di scarpe, di occhiali e dentiere appartenuti ad una umanità scompagnata e mandata in cenere.

..."Lo Stato continua a produrre e riprodurre cerchi ideali, ma ci vuole una macchina da guerra per fare il tondo"... 
Racconta Primo Levi:

Poi viene un altro tedesco, e dice di mettere le scarpe in un certo angolo, e noi le mettiamo, perché ormai è finito e ci sentiamo fuori del mondo e l’unica cosa è obbedire. Viene uno con la scopa e scopa via tutte le scarpe, via fuori dalla porta in un mucchio. E’ matto, le mescola tutte, novantasei paia, poi saranno spaiate.[15]

In simili circostanze anche i coniugi Arnolfini avrebbero avuto delle perplessità a togliersi le scarpe.[16] 

Se una scarpa fa male bisogna presentarsi alla sera alla cerimonia del cambio delle scarpe: qui si mette alla prova la perizia dell’individuo, in mezzo alla calca incredibile bisogna saper scegliere con un colpo d’occhio una (non un paio: una) scarpa che si adatti, perché, fatta la scelta, un secondo cambio non è concesso.[17]
Nessuno si sorprenda, dunque se per ricomporre le spoglie pescando in questi cumuli di spazzatura parergonale vengono poi tirate su due scarpe spaiate: inservibili per camminare, sono invece perfette per starsene immobili a far la guardia al tondo.

[1] - G. Deleuze-F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia - sez. III  Sul ritornello, ed. Castelvecchi, Roma 1997, p. 56:, p. 102.
[2] - Derrida, Restituzioni, cit., p. 247.
[3] - Antonin Artaud, Van Gogh le suicidé de la société, (ediz. K finito di stampare il 25 settembre 1947); Van Gogh il suicidato della società, ediz Adelphi, Milano 1988, cit. p. 96: “Non ci sono fantasmi nei quadri di van Gogh, né visioni, né allucinazioni”.
[4] - E’ un brano dell’articolo  pubblicato sul settimanale “Arts” del venerdì 31 gennaio 1947, che Pierre Loeb inviò ad Antonin Artaud  e che sembra sia stato decisivo nell’indurlo a scrivere su van Gogh. L’articolo, pubblicato col titolo “Sa follie?” è costituito di alcune pagine tratte dal saggio del dottor Beer che accompagnavano il volume “Du demon de van Gogh”, abbondantemente illustrato, appena pubblicato. La domenica successiva alla lettura dell’articolo, il 2 febbraio 1947. Artaud si recò al Musée de l’Orangerie per visitare una mostra di opere di van Gogh.
[5] - Trovo deplorevole pubblicare una raccolta di lettere di Vincent van Gogh al fratello Theo, come quella italiana dell’editore Guanda, affidandola a null’altro che ad un saggio introduttivo che ha una sostanza esclusivamente patografica.  Il saggio, tratto dal volume del 1922 Strindberg und Van Gogh di Karl Jaspers, ha tuttavia il merito di aver avvicinati (pur nella malattia) i nomi di Hölderlin e van Gogh prima che Heidegger li adottasse per il suo studio sull’origine dell’opera d’arte.
[6] - “Di giorno, nella vita quotidiana, posso forse apparire  insensibile quanto un cinghiale selvatico, e posso capire benissimo che la gente mi ritenga rozzo” [Vincent a Theo, Nuenen 7 dicembre 1883; n. 410-345] -  “Caro fratello, sento che papà e mamma pensano a me per istinto (non dico per intelligenza). Il cane rimpiange soltanto di non essere restato lontano, perché era meno solo sulla brughiera che in questa casa, malgrado ogni gentilezza. La visita di questo cane è stata una debolezza che spero verrà dimenticata e che il cane eviterà di commettere in futuro” [Vincent a Theo, Nuenen 15 dicembre 1883;  n. 413-346]. Vedi altro qui sotto, in  Materiali.
[7] - G. Deleuze-F. Guattari, Sul ritornello, cit. p. 102: “Fissare, sedentarizzare la forza lavoro, regolare il movimento del flussi del lavoro, assegnargli canali e condotti, formare corporazioni nel senso di organismi e, per il resto, ricorrere ad una mano d’opera coatta, reclutata sul posto (corvée) o fra gli indigenti (ateliers di carità) – fu sempre una delle attività principali dello Stato, che si proponeva di vincere ad un tempo un vagabondaggio di banda e un nomadismo di corpo.”
[8] - Heidegger. La frase tra parentesi è stata annotata più tardi da Heidegger stesso e inserita nell’edizione Reclam  del 1960.
[9] - Heidegger, Origine Ni68, p. 19.
[10] - Derrida, Restituzioni, cit. p. 268.
[11] - Derida sa benissimo (anche se finge di non saperlo) che non ci sono spettri neppure in Marx (ed in Engels), i quali si erano detti: in Europa circolano delle favole sul comunismo che spaventa gli Stati e li spinge ad una santa alleanza contro un fantasma? Ebbene, facciamogli vedere il corpo concreto, storico e scientifico, la forza reale di cui devono aver veramente paura  - ma solo quando tale forza in sé diviene forza per sé, ossia organizzandosi praticamente in partito, appunto… Così, il Manifesto del Partito Comunista non è una drammatizzazione dell’Europa; ovvero magari è anche una tragedia  familiare; perché nella sua terza sezione il Manifesto prende in esame anche l’intero spettro dei parenti del comunismo che provengono dal passato, dal presente e addirittura dal futuro per raccogliere come “letteratura socialista e comunista” questi effettivi fantasmi e liquidarli criticamente, ossia mortalmente, come in una strage itacense i pretendenti.
[12] - Già la contadina si presenta subito, alla fantasia del filosofo, come una “custode”, ossia un “salvaguardante” che, attraverso il “mezzo” e per mezzo delle proprie scarpe, è a salvaguardia del suo proprio mondo e, a fortiori,  dell’opera d’arte e dell’intero Mondo cui l’opera appartiene.
[13] - Derrida, Restituzioni. cit. p. 312.
[14] - Artaud, Van Gogh le suicidé da la société,1947.- Laddove con “della” (de la) società i suicidati sono presi in carico (adottati e in cura) della società: con l’espressione “dalla” (par la) società sarebbero al contrario causati e a carico (addebitati) alla società.- Vedi anche Del suicidio e delle sue cause,1846, in NoMade n.5 2011.
[15] - Primo Levi, Se questo è un uomo, ed. Einaudi, Torino 2005, p. 20.
[16] - “Qui noto soltanto che le calzature dei due contraenti il matrimonio in Fidem  sono state tolte, abbandonate, messe da parte, un paio alla sinistra del quadro, e l’altro in mezzo ai due sposi, in fondo e al centro del quadro, sotto il tavolo, sotto lo specchio… esse stanno qui, come altri tipici simboli della fede, per marcare l’impronta del sacro”. [Derrida, Restituzioni, cit. p. 328-329]
[17] - P. Levi, Se questo è un uomo, cit, p. 29.















Da sinistra - Una montagna di abiti e scarpe delle vittime al campo di sterminio di Auschwitz (le migliori verranno riciclate per la popolazione civile) - Jan van Eyck, I Coniugi Arnolfini, olio su tavola (1434).

ALTRE FIGURE ESISTENTI
- Natura morta con tre nidi di uccello (F 108); Nuenen, ottobre 1885; olio su tela cm.33.5x50.0; Otterlo, Kröller-Müller Museum. -
Still Life with Birds' Nests (F 109r); Nuenen, late September-early October 1885; Oil on canvas 31.4 x 43.0 cm.; Amsterdam, V.G. Museum. - Natura morta con tre nidi di uccello (F 110); Nuenen, ottobre 1885; olio su cartone telato cm.43.0x57.0; L’Aia, Haags Gemeentemuseum (Wibbina Foundation). - Natura morta con cinque nidi (F 111); Nuenen, fine settembre-inizio ottobre 1885; olio su tela cm.39.3x 46.5; Amsterdam, V.G. Museum. - Natura morta con tre nidi di uccello (F112); Nuenen settembre-ottobre 1885; olio su tela cm.33.0x42.0; Otterlo, Kröller-Müller Museum
§ [ un esercito di fantasmi ]
Nota 6 - “Caro fratello, Sento che papà e mamma pensano a me per istinto (non dico per intelligenza). Hanno lo stesso timore di accogliermi in casa che avrebbero se si trattasse di un grosso cagnaccio. Quello magari si metterebbe a correre per le stanze con le zampe bagnate – sarebbe tanto rozzo. Darebbe fastidio a tutti. Ed abbaierebbe tanto forte. In breve, una bestiaccia. Va bene – ma la bestiaccia ha un storia umana ed anche se è soltanto un cane, ha un’anima umana, e molto sensibili anche, che gli fa sentire quel che pensa di lui la gente, cosa che un cane normale non può fare. Io, dato che ammetto di essere una sorta di cane, li lascio stare. Inoltre questa casa è troppo bella per me e Papà e Mamma e la famiglia son tanto raffinati (sebbene poco sensibili intimamente) e – e – e sono dei preti – tanti preti. Il cane capisce che se lo terranno vorrà dire soltanto che lo si tollererà “in questa casa”, di modo che cercherà di trovarsi un altro canile. Il cane è in effetti figlio di Papà e lo si è lasciato troppo per la strada, dove non ha potuto fare a meno di diventare sempre più rozzo; ma questo Papà già da tempo lo ha dimenticato ed in effetti non ha mai meditato profondamente al legame tra padre e figlio, neppure è il caso di dirlo. E poi – un cane può mordere – può ammalarsi di rabbia ed allora la polizia dovrebbe venire ad abbatterlo. Sì, tutto questo è verissimo. D’altro canto, i cani fanno la guardia. Ciò è superfluo dirlo, essi dicono che c’è la pace, non ci sono pericoli. Quindi non ne parlo. Il cane rimpiange soltanto di non essere restato lontano, perché era meno solo sulla brughiera che in questa casa, malgrado ogni gentilezza. La visita di questo cane è stata una debolezza che spero verrà dimenticata e che il cane eviterà di commettere in futuro.” [Vincent a Theo, Nuenen 15 dicembre 1883;  n. 413-346]
“Caro Theo, Mauve una volta mi disse: troverai te stesso se ti metterai a dipingere, se penetrerai nell’arte più profondamente di quanto tu non abbia fatto fino ad ora. Questo lo disse due anni fa. Ultimamente penso spesso a queste sue parole. Ho trovato me stesso – sono quel cane. Quest’idea può parerti piuttosto esagerata – la realtà può essere meno netta nei suoi contrasti, meno crudamente drammatica, ma credo che il profilo generico della situazione sia vero, in fondo. Quel cane da pastore arruffato che cercai di descriverti nella mia lettera di ieri è il mio vero carattere e la vita di quella bestia è la mia vita, per così dire, saltando i dettagli e badando solo ai fatti essenziali… Ti dico, ho scelta con piena coscienza la vita del cane; resterò un cane, sarò povero, sarò pittore, voglio restare un essere umano. [Vincent a Theo, Nuenen 16 dicembre 1883; n. 414-347]
VALIGIE
parte seconda H.D.S. MAROQUINERIES